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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2014 alle ore 09:56.

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Se un ascoltatore «dylaniato» (così si definiscono amorevolmente i monomaniaci di Sua Bobbità) avesse a disposizione una macchina del tempo, imposterebbe senza dubbio il timer su giugno 1967, facendo rotta sullo Stato di New York, località Woodstock, all'epoca poco più che un sobborgo campagnolo della Grande Mela. Formalmente il Nostro era in silenzio: due mesi dopo l'uscita di «Blonde on blonde» (maggio 1966), capolavoro che chiudeva la rivoluzionaria trilogia elettrica, si era schiantato con l'amata Harley Davidson cavandosela per un mezzo miracolo.

L'incidente lo aveva segnato nel profondo, gettandolo nella prima grave crisi esistenziale della sua carriera. Per un po' niente uscite discografiche, né pubbliche: meglio il silenzio, consumato nel «Pig Pink», un delizioso cottage di legno verniciato di rosa da condividere con un po' di amici. Se ci metti che gli amici in questione erano Levon Helm, Robbie Robertoson, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson, il silenzio in questione non poteva che essere operoso: i sei, riuniti in cantina, da giugno a ottobre non fecero altro che registrare. Qualsiasi cosa gli passasse per la mente: da vecchi standard della tradizione («Johnny Todd», «900 Miles from my Home») a pezzi che avevano contribuito a creare il mito del Menestrello di Duluth («Blowin' in the Wind»), fino a nuove canzoni che Dylan teneva nel cassetto ma ebbe modo di sviluppare con un piccolo aiuto dei suoi amici («Tears of Rage», «This Wheel's on Fire»). È la storia di «The Basement Tapes», i nastri dello scantinato, una specie di Santo Graal del rock che ha influenzato generazioni di musicisti, ingolosito i fan e diviso i critici. Una prima edizione pirata uscì nel 1969 con il titolo «Great White Wonder», primo bootleg che la storia della musica annoveri.

Intanto il materiale di quelle leggendarie session prendeva vita, attraverso le cover di band e artisti d'orbita dylaniana: dalla stessa Band di Helm e Robertson, che in «Music from the Big Pink» riprese «Tears of Rage» e «I Shall Be Released», ai Byrds («You ain't going Nowhere» e «Nothing was delivered»), dai Manfred Mann («Quinn the Eskimo») a The Floor («Open the door Homer») solo per citarne alcuni. Si creò una tale attenzione intorno al fenomeno che nel 1975 la Columbia decise di pubblicare una selezione dei «Basement Tapes» in doppio Lp. Nessuno, tuttavia, aveva prima d'ora avuto la fortuna di ascoltare dall'inizio alla fine i nastri dello scantinato. «Erano i nostri nastri segreti, – spiega Robbie Robertson – il nostro Watergate, a volte Bob ci diceva: “Dovremmo distruggerli”». Per fortuna la storia è andata in un'altra direzione e oggi, come undicesimo capitolo della saga di «The Bootleg Series», vede la luce la nuova edizione dei «Basement Tapes» nella versione complete (box di sei cd per 138 canzoni) e raw (una selezione in due dischi).

Ragazzi, che roba: nella alternative version di «Million Dollar Bash» senti l'insofferenza di Zio Bob soffiare attraverso armonica, nella prison song «Ain't no more Cane» tra fumi dolciastri e odore di bourbon Dylan scippa il microfono al bassista Danko (che per quel brano aveva un'ossessione) e farfuglia di giorno del giudizio, ci scappa pure la cover di «Folsom Prison Blues», brano manifesto di Johnny Cash (di lì a poco arriverà «Nashville Skyline»). Per i dylaniati è la macchina del tempo di cui sopra. Per i dylaniani si apre una pagina privata di vita d'Artista in momento di grazia. Per i discografici di tutto il mondo potrebbe funzionare come libro di testo: è così che va maneggiata la storia del rock quando si ristampa. Niente effetti speciali, tanto rispetto. La patina del tempo certe volte fa da valore aggiunto.

Bob Dylan & The Band
«The Basement Tapes Complete»
Columbia Records

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