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Questo articolo è stato pubblicato il 16 novembre 2014 alle ore 08:15.

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Siamo reduci da una fase in cui il termine "finanza" è diventato sinonimo di "economia" con un'operazione riduzionistica dagli effetti deleteri, destinata in ultima istanza a confondere mezzo e fine, strumento e progetto. Infatti, come si registra persino a livello filologico, l'economia è una scienza umanistica, essendo la regola di gestione (nómos) della casa (oíkos) personale, familiare e mondiale. Conseguenza di questa finalità che rende l'orizzonte del l'economia ben più ampio della mera funzionalità strumentale della finanza è il contatto necessario con l'antropologia, l'etica e persino con la religione. Come scriveva Amartya Sen nel suo famoso saggio Etica ed economia (Laterza, 1988), «il distacco dell'economia dall'etica è un impoverimento dell'economia il cui alveo originario dovrebbe essere la filosofia morale, terreno nel quale molti economisti temono di inoltrarsi».
Con statuti metodologici differenti e quindi con una propria operatività, economia e religione si devono porre da angolature diverse a servizio dell'umanità. È ciò che si trova ripetutamente affermato nei documenti pontifici più recenti come la Caritas in veritate (2009) di Benedetto XVI e l'Evangelii gaudium (2013) di papa Francesco ed è ciò che viene elaborato in vari saggi di indole teologica. Il cristianesimo è, al riguardo, particolarmente coinvolto a causa della sua matrice strutturale che ha al centro l'"incarnazione" per cui Dio e uomo, in Cristo e nella Chiesa, sono profondamente uniti per un progetto di giustizia e di amore. Esso è denominato nel linguaggio simbolico biblico «il regno di Dio», una categoria non teocratica ma storico-spirituale. Per questo, come scriveva suggestivamente Chesterton, «tutta l'iconografia cristiana rappresenta i santi con gli occhi aperti sul mondo, mentre l'iconografia buddhista rappresenta ogni essere con gli occhi chiusi» nella contemplazione interiore.
Lo spunto per la riflessione essenziale che ora proponiamo ci viene offerto da due volumi interessanti, anche se di taglio differente. Da un lato, collochiamo un vero e proprio vaglio sistematico, storico-critico ed ermeneutico dell'etica economica propria delle Sante Scritture ebraico-cristiane. Esse sono analizzate in questo saggio sia a livello diacronico – e quindi secondo un arco evolutivo che dall'Israele biblico approda al cristianesimo giudeo-cristiano e paolino – sia secondo uno sguardo sincronico finale ove si raccolgono i nodi permanenti della questione. Essi riguardano il giudizio non univoco sul benessere, la gratuità del dono divino, la reciprocità nella carità, il rapporto di stewardship col creato e i suoi beni e il tema classico della provvidenza. Ad abbozzare questo disegno testuale e sistematico è un docente di teologia ed economia del Providence College (Rhode Island), Albino Barrera, che ha alle spalle già un'ampia bibliografia sul tema.
D'altro lato, rimandiamo invece a un testo più mobile e diretto: si tratta di un dialogo tra un noto biblista impegnato a livello pastorale ecclesiale e di solidarietà internazionale, Giuseppe Florio, e un importante e vivace economista dell'università romana di Tor Vergata, Leonardo Becchetti. Quest'ultimo a più riprese è intervenuto in modo incisivo e originale sul nesso tra etica ed economia, non temendo di inoltrarsi anche nell'orizzonte della felicità intesa come approdo non marginale della stessa prassi socio-economica. La freschezza del confronto tra due esperti di discipline diverse ma tra loro non aliene rende molto godibile questo testo. Per fortuna sono non pochi gli economisti e i teologi che in questi ultimi tempi s'affacciano oltre le loro siepi di frontiera per interloquire: vorrei solo segnalare il prezioso e suggestivo contributo dell'economista Luigino Bruni della Lumsa di Roma, sulla cui ricerca potremmo in futuro intervenire.
Ma ritorniamo alla nostra considerazione di indole generale sulle sorgenti stesse della fede cristiana. A livello strettamente storico-critico non pochi studiosi si sono preoccupati di riconoscere le coordinate socio-economiche entro le quali si è svolta la storia dell'Israele biblico o quella del cristianesimo, adottando schemi interpretativi anche eterogenei (marxisti o liberali). Ricordiamo solo un'interessante Sociologia del cristianesimo primitivo pubblicata nel 1979 dal tedesco Gerd Theissen (Queriniana, 1987). Certo, la Bibbia rivela diversi modelli socio-politici legati ai condizionamenti storici e alle varie istanze che si volevano testimoniare. È il caso del l'esperimento vissuto dalla comunità cristiana delle origini, ed esaltato da Luca negli Atti degli apostoli.
Esso è definito come koinonía, un termine greco che indica la «comunione fraterna» dei beni, una sorta di "comunismo" ideale, modellato sulla ripartizione degli averi tra tutti i membri della comunità secondo criteri di uguaglianza assoluta. Il punto di riferimento era l'appello del libro biblico del Deuteronomio: «Non vi sarà nessun bisognoso tra voi» (15,4); ma lo erano anche certe esperienze di condivisione dei beni presenti nel giudaismo (la comunità di Qumran sul mar Morto) e nello stesso mondo pagano (pitagorici e stoici). Giustamente Friedrich Engels faceva notare che non era equiparabile questa prassi gerosolimitana alla proposta marxista, essendo differenti le motivazioni di fondo.
Alla base del progetto cristiano – che, tra l'altro, era possibile in una società ristretta ed economicamente semplificata – c'era, infatti, la fede comune nello stesso Dio, la cui paternità ci rende tutti figli suoi e tra noi fratelli. C'era il riconoscimento della necessità che tutti hanno della salvezza, per cui non esistono privilegiati, e c'era una relativizzazione dei beni materiali rispetto al valore supremo della giustizia e dell'amore.

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