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Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2014 alle ore 11:30.

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Sedici ottobre 1944. Londra è in balia di nuovi missili devastanti, l'ultimo colpo per una città che in anni di guerra e di bombardamenti ha già accumulato molte ferite. T. S. Eliot pronuncia la sua prolusione come primo presidente della neonata «Società Virgiliana». Il titolo – «Cos'è un classico?» – ha forma di domanda, ma la risposta non tradisce esitazioni: un classico, il classico, è Virgilio, «il nostro classico, il classico di tutta Europa». Non possono aspirare a quel ruolo i sommi autori delle letterature nazionali; Virgilio sì, perché poeta in una lingua che, morendo, ha irradiato tutta Europa e le ha garantito il contatto con l'eredità dei greci.

Nel nome di Virgilio Eliot traccia un progetto di salvezza culturale del continente che rinascerà dalle macerie, individuando un comune denominatore che trascenda anche Dante o Goethe o Shakespeare. «Dobbiamo ricordarci – afferma – che, come l'Europa è un'unità (e tuttora, pur crescentemente mutilato e deturpato, l'organismo dal quale deve svilupparsi una maggior armonia mondiale), così la letteratura europea è un'unità». È, la sua, l'esaltazione teorica più esplicita della centralità culturale di Virgilio, che risponde a un sentire e un'esigenza reali. Quando, pochi anni dopo, Carlo Dionisotti arriva a Oxford, si concentra sui classici latini, Virgilio in primis, convinto che sia questa la base del dialogo tra l'esule (antifascista) di un paese sconfitto e i suoi colleghi britannici.

Il ruolo principe di Virgilio e soprattutto dell'Eneide è una costante della cultura europea da prima che l'aggettivo abbia un senso. Il suo poema è un classico mentre l'autore ancora lo scrive, poi una presenza immediata e costante sui banchi di scuola e nell'immaginario. In questo libro affascinante, che guida con acutezza il lettore tra una miriade di opere e di autori, Philip Hardie racconta la storia di questa duratura e poliedrica canonizzazione.
L'Eneide, pur così specifica nella sua trama, nella sua tessitura linguistica, nei suoi riferimenti culturali, è celebrata e imitata (anche parodizzata) in letteratura e spesso anche nelle arti figurative per due millenni perché il suo schema narrativo si adatta agevolmente ad altri contesti.

È la storia di un esule che fonda un impero, o, meglio, che ritorna col suo popolo ad una terra insieme nuova e antica (i Troiani si volevano discendenti dell'etrusco Dardano), per gettare le basi di un regno la cui grandezza il poema può solo garantire al futuro. Anche se Enea non vede in prima persona il trionfo di Augusto, la profezia di Virgilio propone un modello attraente per ogni impero che si voglia eterno e invincibile. Quando descrive l'emergere dell'ordine dal caos, il contrasto tra le potenze infernali della discordia e la forza di un principe che si vuole capace di interrompere il ciclo inevitabile del declino umano riportando in terra una nuova Età dell'oro, l'Eneide costruisce un'intelaiatura ideologica pronta a farsi archetipo.

Sarebbe però un errore ricondurre il successo dell'Eneide, anche solo in campo ideologico, esclusivamente alle aspirazioni imperialistiche e panegiristiche di successive generazioni di potenti. Certo, la prefigurazione di un sovrano che ascende al cielo offre un modello (e quindi anche un antimodello) di molte apoteosi successive: a Milano è dipinta l'apoteosi di Napoleone, sul Campidoglio di Washington quella del repubblicano Washington. Ma la trama del potere che Virgilio costruisce è più complessa e più sottile. Il suo è anche (per molti, oggi: soprattutto) un poema di esilio e di transizione, che all'ombra di un motto perentorio e mille volte sfruttato, la promessa di Giove ai Romani che il loro sarà un «impero senza fine», suggerisce riflessioni meno rassicuranti. Lo dice senza mezzi termini Agostino, quando la distruzione che Alarico infligge a Roma “eterna” nel 410 revoca in dubbio il valore delle parole di Giove.

Anzi, lo fa dire a Virgilio stesso, il quale si assolve da ogni responsabilità osservando che, in fondo, è stato un dio pagano a sbagliare. E lo ripeterà con foga W. H. Auden nel 1959, rimproverando al poeta di immaginare un futuro che non si proietta oltre gli eventi della sua vita: «Neppure il primo dei Romani può imparare/ La sua storia romana al futuro». Per Auden, Alarico ha vendicato Turno, l'eroe latino sulla cui morte per mano di un Enea furente Virgilio sceglie ambiguamente di chiudere il poema. È su Virgilio, sull'Eneide, che si misurano la filosofia e la teleologia della storia.

La critica del dopoguerra ha messo in giusto rilievo molte delle tensioni e delle esitazioni ideologiche che rendono impossibile, o comunque tristemente riduttiva, una lettura dell'Eneide solo in chiave di panegirico (la reazione era dovuta, se solo si pensi allo sfruttamento fascista di Virgilio profeta della Terza Roma). Si erano già segnalate, però, ingegnose operazioni controcorrente. A inizio Quattrocento Maffeo Vegio, dotto monaco domenicano, compone un tredicesimo libro dell'Eneide che per qualche secolo avrà l'onore di essere stampato in appendice al capolavoro. Vegio regala ai lettori l'happy ending che manifestamente manca nell'originale. Turno viene sepolto con onore, Enea e Lavinia si sposano, assistiamo alla fondazione di Lavinio e all'apoteosi di Enea. Un finale dell'opera, insomma, che riscatta la violenza inscritta nelle omissioni di Virgilio, il quale non esitava a chiudere sull'orrore dell'uccisione di Turno e nulla dice né di Lavinia (un'assenza, un simbolo evanescente) né del destino di Enea.

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