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Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2014 alle ore 11:36.

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L'opera in versi di Franco Fortini, così come ci viene consegnata da questo volume che giunge in libreria a celebrare il ventennale della morte e che ha tutta l'aria di essere un recupero organico e definitivo del lavoro di oltre cinquant'anni, appare una limpida esperienza civile, una mai sopita interrogazione del futuro effettuata in chiave etica, una ricerca di senso condotta non tanto nel riposo della natura, piuttosto nel mare aperto delle idee o nell'incalzare dei fatti della Storia.

Assomiglia, questo modo di far poesia, alla carta carbone delle vecchie macchine da scrivere: trasmette segni al foglio bianco solo quando è percossa dal martelletto. Qui si riconosce facilmente il martelletto che picchia ed è l'incalzare degli avvenimenti che stringono d'assedio tanto i componimenti ancora acerbi di Foglio di via (1946) quanto le prove tardive di Composita solvantur (1995), soffiano fuoco sulla pagina restituendo un'immagine di intellettuale capace come pochi altri di condurre – afferma Giovanni Raboni con magnifica esemplarità – «una lotta così radicale, così lucida, così ripugnante con le ombre lunghe della consolazione». Il termine «consolazione» accende per vie naturali una serie di rimandi, il primo dei quali va alla distinzione tra cultura consolatoria e cultura liberatoria con cui Vittorini inaugurava «Politecnico», nel 1945. Cito non a caso i nomi dello scrittore siciliano e della sua rivista perché sono il veicolo più affidabile che scortano i testi del nostro autore in seno all'Einaudi e ne rivendicano una sorta di matrice originaria.

Fortini, infatti, nasce e rimane a lungo un poeta politecnico non solo perché entra a pieno titolo in quello che è stato il laboratorio Vittorini, ma per ragioni di metodo, per quel considerare e vivere la letteratura quale strumento di indagine e di analisi sulla società che via via si trasforma, dunque per edificare la polis. Nessuna definizione calza meglio dello slogan che Fortini diede di se stesso nel 1973: «Letterato per i politici, ideologo per i letterati». Che la sua risulti sempre più una poesia “in pubblico” lo si constata dai minimi riferimenti al vissuto individuale, pure affiorante qua e là nella presenza della moglie Ruth o nella militanza tra le file della Resistenza ossolana, ma il cui ruolo si ammanta di significati proiettati oltre la vita dei singoli, a volte appena accennati per lasciare spazio a qualcosa che assume la forza di un noi collettivo. In fondo è questa la virtù che Fortini domanda al proprio impegno di scrittore: praticare un esercizio con cui interrogare il proprio tempo, farsi inno o lamentazione (mai come in questo caso è necessario ricorrere a una terminologia veterotestamentaria) di quell'humilemque Italiam che avrebbe assommato volti a volti, ideali a ideali, a partire dall'eroica stagione partigiana fino alla fase del disincanto, quando anche le sventolanti bandiere di una coscienza operaia sarebbero state ammainate.

In seno a quest'umile Italia si origina e matura la storia di un errore declinato sotto forma di svista o di inganno, richiamato in funzione di archetipo addirittura nel titolo della raccolta del '59, Poesia ed errore appunto. Di quale errore si tratta? Non certamente della modernità che irrompe attraverso il ticchettio meccanico di una fabbrica atipica quale la Olivetti di Ivrea, presso cui Fortini svolse le funzioni di copywriter. E nemmeno del rifiuto di un paesaggio urbano che assume l'icona dei «palazzi di vetrocemento» («A Milano i tetti»).

L'errore è un tarlo che rode e corrompe la stoffa dei versi, genera macchie e ambiguità, confonde le piste del poeta che è obbligato a diventare complice o servo o traditore delle macchinazioni del potere, ad accettare e contemporaneamente a rifiutare le seduzioni che sono del suo status intellettuale, a comprendere di avere esigui margini di manovra se non obbedire alla condizione di «servo non inutile» (Deducant te angeli) o farsi «astuto come colomba» (dal titolo di un celebre capitolo di Verifica dei poteri, 1965).
Gran parte delle questioni messe in campo da Fortini trova nel confronto tra letteratura e politica il punto di massima concentrazione, sicché l'intero edificio poetico andrebbe letto in termini capovolti, quale enorme ripensamento intorno al ruolo che è chiamato a ricoprire il nuovo chierico – sia questi funzionario di partito o dirigente di fabbrica o semplice amanuense di un'Italia saldamente capitalista – in un contesto che annovera Stalin e Pasternak, il Muro di Berlino e il Sessantotto. Un senso di insoddisfazione trapela dal lungo récit sui destini della cultura, contenuto in questo volume, e riverbera su quel particolare atteggiamento che Luca Lenzini, nell'estesa e convincente introduzione, denomina «condizione di erranza e disappartenenza».

Ciò si evince dai ripetuti richiami a quel sostrato ebraico che ha le sue dolorose apparizioni nei rimandi a Gerusalemme, al Sinai, a Babilonia. Ma trova preciso compimento anche nell'attività di traduttore (di Brecht innanzitutto, ma anche di Baudelaire, Eluard, Goethe, Gongora, Milton, Rilke); un'esperienza che certo corre parallela a quella del critico e del poeta, anzi è probabile che agisca perfino sull'impianto linguistico, quasi Fortini cercasse negli idiomi di altre nazioni il varco verso una civiltà europea e temperasse la sua lotta epica con il domani, il suo sentirsi organico alla nozione di contemporaneità eppure così tanto in antitesi con essa.

Franco Fortini, Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, Milano, pagg. 952, € 22,00, in libreria dal 18 novembre

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