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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2014 alle ore 13:37.
L'ultima modifica è del 18 novembre 2014 alle ore 20:43.

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“Futuro semplice” si chiamava la prima raccolta di Gianni Montieri, del 2010. Questa seconda s'intitola “Avremo cura”, e il futuro, qui incarnato in un significativo noi, non è un caso. Per Montieri c'è dunque una possibile via d'uscita da un desolato perdersi dell'io nel confuso presente.

Allora velatamente, oggi apertamente, Montieri la indica in un plurale. Diceva allora, con una limpida metafora: “Coltiviamo le speranze in curva/ non avendo mestiere per i rettilinei/ nessuna competenza/ sui tratti autostradali”, e parlava dell'”audacia di essere reali”, di non “accontentarsi davanti al mare”, di “non essere bandiere/ vittime del vento/ di prematuri cambi d'opinione”. Questa via il suo io, che in “Avremo cura” chiama “matricola notturna” - il principiante fuori norma? - ha qualche speranza d'impararla.

A me piace l'innegabile istanza etica di queste poesie, che segnalano continue cadute in verticale nei disperanti messaggi del reale - discorsi, volti, situazioni - e risalite in uno strano luogo che lui non esita a chiamare “felicità”, una parola che oramai ci suona spudorata: felicità sono i congedi fra anonime strette di mano con un amico del momento, un possibile compagno che già si dilegua, e i congiungimenti con l'amata di cui qui non si vede mai il volto, ma la cara sagoma che gli dorme accanto.

Siamo, nella prima parte del libro, a Venezia, a Milano, a Parigi, in Brasile, dove Gianni è appena stato, e agli eventi della nostra fulminea attualità vissuti in video, il sangue che si versa a Damasco e in Libia, ossia la storia del mondo che continua. Ma com'è vero e audace il suo confessare che lui qui si distrae perché ha la tosse e ha finito lo sciroppo e che caso mai, lascia stare il lontano, c'è appena stato un “massacro dietro casa”: la vittima ha vent'anni, e lui che ne ha quaranta come dovrebbe reagire se non preparandosi un tisana e puntando la sveglia per l'indomani? Così si svolge questo suo sommesso quotidano confronto fra il sé e gli altri.

La seconda e più consistente parte del libro è un ritorno al passato, e qui potrebbe inverarsi che la poesia quando canta canta il passato. Sono i ricordi di un sud in provincia di Napoli marcato dalla violenza, il “precipizio atavico” dell'autore che ne fa emergere ben pochi stralci di natura: che dire di una natura così umiliata? A inquietarlo sono gli umani, certi raduni di vecchi, le sparatorie, i ragazzini fuori col pallone, le madri che li cercano, una coppia di usurai, l'amato padre che porta il sacco delle immondizie a un fantasmatico deposito.

Ma chi li guarda, chi può valutare tutto questo? Montieri trova una magnifica similitudine nel calcio: “né arbitro, né guardalinee,/ non c'è pubblico, non c'è tribuna/ solo il replay di un fuorigioco/ fischiato da nessuno”. E ciononostante: “non pensare che fosse indifferenza/ la nostra piuttosto un modo di vivere/ le cose così come si vivono,/ tutte insieme, una per volta”. Sembra una contraddizione, e non lo è, è solo una lucida resa delle tremende difficoltà che ha la coscienza ad abbracciare la vita, e qui, direi, sta la chiave ovvero il movente di queste poesie: la “cura” che Montieri invita a rivolgerle. Un invito a sé e agli altri. Soltanto l'attenzione, che Paul Celan chiamava “la preghiera dell'anima”, è il rimedio al male.

Gianni Montieri
«Avremo cura»
Ed. Zona, Arezzo (2014)

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