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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2014 alle ore 08:15.

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Si ricalcano rapidamente il cappello, tolto in segno di rispetto per intonare l'inno ucraino, riparando il capo esposto alle raffiche di freddo doloroso. Ha un che di religioso la folla del Maidan, cinquecentomila persone di tutte le età e credo politici, che hanno occupato dal novembre 2013 al marzo 2014 la piazza centrale di Kiev per protestare contro il presidente filorusso Yanukovich. Sergei Loznitsa ha ripreso in Maidan (il regista e il documentario saranno il 3 dicembre al festival dei Popoli di Firenze) la loro pervicacia, dall'entusiasmo dei primi giorni agli scontri che hanno provocato cento morti, cento feriti e cento dispersi, fino alle dimissioni del 22 febbraio del presidente.
Una crisi, nata dal rifiuto di Yanukovich di firmare un accordo con l'Unione europea, che si è trasformata in guerra nell'Est con quattromila vittime e che continua a fare discutere. Solo una settimana fa fraü Merkel aveva bacchettato Putin al G20 di Brisbane, accusandolo di estendere l'instabilità politica ucraina a Georgia, Moldavia e Serbia. E che ha spaccato in due gli analisti, divisi tra chi è convinto che l'Europa e gli Stati Uniti abbiano commesso degli errori interferendo e chi invece condanna i ribelli filorussi e Putin, che vorrebbe federare l'Ucraina.
Sicuramente il regista ucraino, classe 1964, una laurea in matematica applicata al Politecnico di Kiev, residente in Germania, sta con la piazza. «Quando sono giunto sul Maidan non sapevo ancora di voler girare un film, ma ho capito subito che lì si stava scrivendo la Storia e che il regime di Yanukovich era condannato». La macchina da presa di Loznitsa si pone davanti alla gente, che fa a gara per coordinare la protesta, aiutare nelle cucine e nelle infermerie fino allo spegnersi delle attività, quando si dorme tutti insieme, sfidando il gelo. Spesso, in sottofondo, si sente una Bella Ciao cantata in ucraino. «Ho avvertito immediatamente un forte senso di solidarietà e cameratismo, una sensazione di fraternità mi ha completamente sorpreso. Ero molto fiero e felice di far parte del risveglio di una nazione. Purtroppo non mi sono potuto trattenere a lungo per impegni pregressi di insegnamento in Europa, ma il mio direttore della fotografia, Serhiy Stetsenko, mi inviava le immagini via internet. Ho cominciato a lavorare al film alla fine di gennaio quando il dramma era ancora in svolgimento e alla fine di febbraio, quando Yanukovich è scappato, avevo il finale del mio film».
Novanta giorni di rivoluzione divisi in quattro parti: prologo, celebrazioni, battaglia e post scriptum, in cui la gente impara a far la guerra, improvvisando barricate, sassaiole e spari. «Stetsenko, come si vede dai movimenti bruschi della macchina da presa nel primo degli scontri, ha corso reali pericoli per la sua incolumità. Io no. Era lì in dicembre quando l'atmosfera era più quella di un carnevale, anche se la situazione era comunque nervosa, in attesa delle cariche della polizia».
Il Maidan ora è tornato alla normalità ma rimane un monito: «La nuova classe politica sa di essere controllata dalla società civile e che quest'ultima è in grado di espellerla, se si macchia di crimini, se corrompe, se viola i diritti umani. Il Maidan è diventata una presenza metaforica». Il Paese ha eletto in maggio il suo nuovo presidente, Petro Poroshenko, mentre il 2 novembre nelle regioni del Sud Est si sono svolte elezioni, non riconosciute, convocate dai separatisti filorussi. Il documentario, passato con buona critica allo scorso festival di Cannes, è girato con inquadrature fisse e lunghi piano sequenza, con un rigore formale che non cede ad alcuna furbizia cinematografica. Non c'è interazione con i protagonisti, ma il regista si schermisce dal definire il suo lavoro come oggettivo: «Sia nel documentario che nella fiction conta l'idea del regista, il suo punto di vista e la sua volontà. La regista Kira Muratova sostiene che un documentario inganna più di una storia inventata. Infatti, sappiamo a priori che nella finzione c'è un'elaborazione artistica. La stessa concezione aprioristica dovrebbe essere applicata anche al documentario, che molto spesso confonde gli spettatori con l'apparente oggettività delle immagini. Io sono un cinefilo, guardo film a getto continuo e penso che operare una distinzione tra cinema documentario e gli altri generi sia frutto di una visione conservatrice e vecchio stampo. Per quanto mi riguarda le divisioni concernono l'etica e non l'estetica. Per esempio, non è possibile documentare un suicidio perché l'idea è inaccettabile dal punto di vista dell'etica convenzionale. Come si può stare inermi con la telecamera in mano davanti a un essere umano che prova a togliersi la vita? Bisogna disfarsene e tentare il salvataggio. Alcuni stati dell'esistenza possono essere resi solo con l'impiego di attori e qui il cinema diventa "funzionale"».
«Una grande fonte di ispirazione per me sono state le pellicole di Pier Paolo Pasolini. Ne ho appena visto la retrospettiva completa: i suoi film sembrano contemporanei. Assieme a Pasolini ho una lunga lista di registi che ammiro, da Dovzhenko a Vertov, da Bresson a Bunuel, da Dreyer a Hitchcock. Il cinema è un'arte giovane, abbiamo moltissime scoperte davanti a noi».
Maidan è il 14º documentario di Loznitsa (un altro è in lavorazione) dopo due film, My Joy (2010), racconto degli abusi di potere e della violenza in Ucraina attraverso la parabola di un tassista, primo film ucraino ospitato in competizione a Cannes, e Anime nella nebbia, premio Fipresci nel 2012 sempre sulla Croisette, in cui un uomo viene accusato ingiustamente di collaborazionismo durante la Seconda guerra mondiale. La prossima pellicola, Babi Yar, non si discosterà dal tema raccontando l'Olocausto in Ucraina nel 1941, durante i primi mesi dell'occupazione tedesca.

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