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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2014 alle ore 08:15.

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Nel gergo dei marinai il termine «Ratline», che letteralmente significa «via dei topi», si riferisce alla scala di corda che giunge alla sommità dell'albero maestro dove, quando la nave è in procinto di affondare, si spera di trovare un ultimo rifugio. Quello stesso termine è stato, poi, utilizzato simbolicamente per indicare la via di fuga dei criminali nazisti alla ricerca della salvezza dal naufragio del III Reich. Il porto di Genova, come racconta Arrigo Petacco nel suo più recente volume, fu l'ultima tappa europea della «Ratline» dei nazisti, quasi tutti diretti verso l'accogliente Argentina del presidente Juan Domingo Peron, che giungevano da ogni parte nel capoluogo ligure, presto divenuto la più importante via di fuga dall'Europa, e che, all'insaputa dei cittadini genovesi, avevano lì la possibilità di imbarcarsi per il nuovo continente.
Quanti furono i criminali nazisti che riuscirono a sfuggire alla giustizia, in qualche caso solo temporaneamente, attraverso la «Ratline»? Non si sa con precisione, ma il loro numero fu, certo, enorme, centinaia o forse migliaia. Petacco ricorda che, nell'arco di tre anni, fra il 1946 e il 1949, salparono da Genova, fra gli altri, Adolf Eichmann e Josef Mengele, Klaus Barbie ed Erich Priebke. È vero, però, che un'altra città ligure, non troppo distante, La Spezia, divenne, al contrario, l'ultima tappa europea dell'esodo degli ebrei verso la terra promessa e fu denominata la «Porta di Sion»: Petacco, originario di quelle zone, ricorda con toni di commossa partecipazione la gara di solidarietà che gli spezzini disputarono per aiutare i profughi contro il blocco disposto dalle autorità inglesi nei confronti dei motovelieri assiepati di ebrei privi di mezzi di sostentamento.
La «Ratline» fu anche chiamata la «via dei conventi» perché i naufraghi del III Reich giungevano a Genova, provvisoriamente accolti in una bella villa in un quartiere elegante della città che fungeva da centro di raccolta e poi di smistamento, dopo essere stati ospitati, nascosti e aiutati da strutture conventuali e dalla Caritas, che provvedeva a far rilasciare loro dalla Croce Rossa Internazionale nuovi passaporti, con nomi veri o falsi, insieme a visti d'ingresso per l'Argentina. Di questa vicenda e delle tappe della «grande fuga» Petacco ricostruisce tutte le fasi in un racconto avvincente che sembra nascere dalla fantasia di uno scrittore di spy-stories e che, invece, è storia drammaticamente reale. Non tralascia neppure, l'autore, di raccontare certe incredibili «leggende politiche», a cominciare da quelle che alimentavano l'idea della sopravvivenza dello stesso Hitler, di Martin Bormann e di altri capi del nazismo, rifugiatisi in Paesi dell'America del Sud grazie all'organizzazione clandestina «Odessa» che, fornita di ingenti mezzi finanziari, favoriva la fuga dei criminali nazisti. Nessuno di loro, anche fra quelli poi scoperti e processati, ha chiesto perdono. Ed è una circostanza, questa, che merita di essere ricordata come monito morale.
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Arrigo Petacco, Nazisti in fuga. Intrighi spionistici, tesori nascosti, vendette
e tradimenti all'ombra dell'Olocausto, Mondadori, Milano, pagg. 168, € 19,00

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