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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2014 alle ore 08:16.

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Pochi uomini politici hanno lasciato una traccia così profonda nella storia della nostra prima Repubblica come Amintore Fanfani. Era un prodotto genuino della cultura cattolica, quale si praticava all'Università Cattolica di Milano tra le due guerre. Vi insegnava storia del pensiero economico e ci ha lasciato una notevole messe di lavori, che mostrano la sua vasta preparazione e anche la sua marcata inclinazione ideologica. Mise in discussione presupposti consolidati, basti pensare alle sue critiche a Max Weber e ad Adam Smith come capostipite dell'economia classica.
A Weber contestava l'origine dell'economia moderna che poneva più indietro, nelle corporazioni medioevali. Smith e anche l'economia neoclassica erano poi collocati in una sua classificazione originale, che denominava «naturalismo», per il presupposto che attribuiva a quelle dottrine di rifarsi a «un ordine naturale, trascendente o immanente», contrapponendole a quelle «volontaristiche» e «razionalizzatrici», nella quale ultima categoria collocava i teorici moderni del corporativismo cattolico e il «neovolontarismo americano», a partire da Veblen. L'obiettivo intrinseco a queste sue digressioni critiche era duplice: da un lato intendeva cancellare la frattura determinata dall'età moderna nell'evoluzione della società occidentale, in particolare Rinascimento e Riforma, così come la storiografia la proponeva, una interpretazione che nella sostanza era controriformistica, dall'altro si poneva un problema più politico, quello di coniugare l'impostazione corporativa con l'economia moderna, facendo dello Stato l'elemento propulsore e ordinatore del sistema.
Sono temi che finì di forgiare durante la guerra, ma avevano il loro "humus" nelle vicende degli anni 30, donde il suo incontro col fascismo, con cui non si identificava, rimanendo sulla sponda dell'Università Cattolica. Fece tra l'altro i conti con l'endiadi Stato-partito e quest'ultimo poneva a garante della trasformazione corporativa. Nel secondo dopoguerra adattò questo schema al nuovo partito cattolico e al carattere democratico del nuovo regime politico. Era legato a Dossetti e al suo fianco era infatti entrato nella Democrazia Cristiana. Ma, per quanto fosse cattolicissimo, di questi non aveva la stessa visione religiosa e ideale della politica. Era un realista, con una buona dose di empirismo, e aveva naturalmente notevoli capacità di governo. Doti che Dossetti non possedeva ed essendone consapevole, si era rivolto principalmente a Fanfani perché fosse il suo "alter ego" politico, come mostra in una sua appassionata e significativa lettera del 1946, per esserne in fine abbandonato. La «politica» era per Fanfani l'arte di decidere ciò che è giusto e necessario. In questo differiva da molti del suo partito. Non era per temperamento un mediatore, anche se non mancava di tatticismo. Voleva un partito coeso su di un programma di governo volto alla trasformazione del Paese. Cercò di forgiarne uno che rispondesse a questo fine. Parve riuscirci, unendo nella sua persona la carica di segretario della Dc e di presidente del Consiglio. Ma fu una breve illusione la sua, travolto dalla pluralità di interessi e opinioni che convivevano nel partito. Rimaneva comunque indispensabile per portare a termine la svolta di centro-sinistra. E il suo IV Governo in breve tempo varò provvedimenti incisivi che produssero quella svolta. E per le sue realizzazioni può dirsi l'unico governo di centrosinistra, formula che rapidamente doveva declinare. A partire da questa vicenda la storia di Fanfani non è più quella lineare di un tempo. La teoria era stata, già da tempo, confinata alle sue lezioni universitarie, che svolgeva con assiduità, anche nel mezzo dei suoi più cogenti impegni politici. Restava la politica come potere, che tuttavia egli continuava a intendere come potere di decidere e di agire da uomo di governo. Aveva guidato la sinistra del partito e si volse a destra, tornando alla segreteria del partito e guidando la campagna antidivorzista al fine di costituire un blocco d'ordine che facesse da spalla ai suoi intenti. Si disse anche che aspirasse a essere un "piccolo" De Gaulle. Non aveva la gloria e l'unicità di sentimento patriottico del generale francese. Aveva soprattutto di fronte un Paese diverso che rifuggiva dalle forti leadership e aveva bisogno ma forse non voleva nemmeno essere veramente governato. Così diffidavano di lui nel suo partito e fuori da esso. Dopo la sconfitta nel referendum sul divorzio e il calo elettorale della Dc che seguì, dovette ritirarsi, divenendo un grande notabile del suo partito, di volta in volta anche ascoltato.
Questa metamorfosi, ancor più il nesso tra il suo pensiero e il suo essere uomo politico è quel che manca nella raccolta di saggi, presentati da Alberto Cova e Claudio Besana. Analisi molto attente del suo pensiero, che portano contributi nuovi alla conoscenza del personaggio e dell'ambiente cattolico in cui mosse i primi passi. Ma la responsabilità politica, che fu a tratti davvero grande, e la stessa identità, come relazione tra pensiero e azione, sfumano pressoché inesplorate.
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Alberto Cova e Claudio Besana, a cura di, Amintore Fanfani. Formazione culturale, identità e responsabilità politica, Vita e pensiero, Milano,
pagg. 406, € 35,00

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