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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2014 alle ore 08:17.

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Quando aveva 15 anni la mamma gli disse «John, perché non pensi a diventare un dentista? Sei così bravo a usare le mani» (ve lo immaginate McEnroe che traffica nella bocca dei pazienti?). Il padre, un avvocato che aveva cominciato dal basso e si era conquistato una posizione di tutto rispetto a Manhattan, lo spingeva invece con forza al tennis, tanto che a un certo punto il ragazzino sbottò: «Papà, non parlarmi di classifiche, non voglio essere il numero uno prima dei 18 anni».
Leggendo Sul serio, la biografia appena ripubblicata da Piemme del più talentuoso (forse) e più estroso (certamente) tennista di tutti i tempi, ci si spiega molte cose del suo modo di essere, si sorride a più riprese e si ripassa un pezzo di storia, a tratti memorabile, del tennis. Un'infanzia passata nella corsa a emanciparsi e a salire i gradini della scala sociale da parte dei suoi genitori che, dal Queens, sognavano un futuro in grande per i loro tre maschietti. Questo significava anche cambiare quattro case in poco tempo, «una volta – lo giuro – traslocammo in quella accanto. "È più bella", dichiarò mia madre» con semplicità.
Parallelamente John, dopo essersi fatto le ossa alla Port Washington Academy, dove il suo idolo era un sedicenne biondo che si chiamava Vitas Gerulaitis, scala la vetta dei campionati juniores per arrivare a primeggiare non solo negli Stati Uniti. E quando a soli 18 anni gioca a Wimbledon nel tabellone principale e approda in semifinale partendo dalle qualificazioni, ormai è nella storia e ha già rivelato se stesso: nei quarti contro Phil Dent, una partita tesissima, spacca la sua prima racchetta, sommerso dai fischi del pubblico. Ma poco importa, la vittoria in cinque set gli vale la sfida con Jimmy Connors, il rivale di sempre, con il quale il rapporto sarà conflittuale e l'atteggiamento – reciprocamente – strafottente. In quel 1977, appena affacciatosi nel tennis che conta, un suo successo contro Jimbo era quotato 250 a 1 (perderà, con onore, in quattro set)!
Il libro, scritto in modo agile e senza pretese di alta letteratura, funziona ovviamente per chi ama McEnroe, perché è una miniera di aneddoti, di piccole scoperte, di episodi divertenti. Ma anche per chi lo detesta trovandolo nient'altro che un arrogante sbruffone: emerge l'origine dei suoi comportamenti, lo strano miscuglio di fragilità e ostinazione che, unito all'ossessione di vincere instillata sin da bambino, ne hanno fatto il McEnroe che tutti conosciamo. Quello che insulta l'arbitro e i cameramen, urla, lancia racchette e palline, prende multe e viene squalificato. Salvo ricominciare con il solito diluvio di imprecazioni perché non può fare diversamente.
In varie pagine John, autore della biografia con James Kaplan, si sofferma sulla necessità di vincere, sull'ansia di essere all'altezza delle aspettative perché «quasi tutti divennero avversari contro cui non potevo assolutamente perdere, la prospettiva di essere fermato era impensabile». In altre ci sono i momenti di spensieratezza, le serate a New York con Gerulaitis, il più godereccio tra i goderecci, o in giro nel circuito dell'Atp con lo stesso Vitas e Bjorn Borg. Né manca la sfera privata, con le due donne della sua vita, Tatum O'Neal e Patty Smith, la tribù dei loro sei figli, le battaglie feroci con i paparazzi.
Ma la parte migliore del libro riguarda il tennis e il suo mondo. A cominciare dal modo di vestire di quegli anni, niente a che vedere con «le magliette larghe e le scarpe da ginnastica che sembrano astronavi» di oggi. Quasi intenerisce la venerazione per Borg, uno che «per me era un poster appeso nella mia camera da letto accanto a Farrah Fawcett», racconta all'inizio. «Era magico, una specie di divinità vichinga atterrata su un campo da tennis. Non aveva molto da dire, né in campo, né fuori: ma non ce n'era alcun bisogno. Bastavano il suo aspetto – le lunghe gambe abbronzate, le spalle larghe – il suo modo di giocare e le emozioni che regalava». Quando lo svedese si ritira, a 25 anni, nello stupore generale, McEnroe subisce una specie di shock e faticherà a riprendersi perché Borg – cui aveva fatto da raccattapalle all'età di 12 anni – è per lui un punto di riferimento. Oltre che l'avversario di match spettacolari, come la finale di Wimbledon del 1980, rimasta negli annali per il tie-break vinto dall'americano 18 a 16 nel quarto set, che tuttavia non bastò ad assicurargli il successo finale. Appassionanti anche le descrizioni di scontri indimenticabili di Coppa Davis, di personaggi d'altri tempi come Ilie Nastase (il buon vecchio "Nasty"), capace di fermarsi in mezzo al campo a discutere una chiamata, agli Us Open, portando il pubblico dalla sua parte, infiammando la situazione a un punto tale – dopo un penalty game! – da costringere il direttore del torneo a cambiare arbitro. O come Ivan Lendl, un campione esattamente all'opposto di John per temperamento e tipo di gioco: è lui a negargli la gioia del Roland Garros nel 1984, quando, in vantaggio due set a zero, l'americano credeva di avere in tasca l'unico trofeo del Grande Slam che gli mancava.
Il libro prende il nome dalla più famosa, irosa espressione pronunciata da McEnroe a un giudice di linea a Wimbledon nel 1981, reo di aver chiamato fuori un servizio profondo: «Man, you cannot be serious!». Ammettiamolo: uno come Mac, oggi, ci manca tanto. Sul serio.
eliana.dicaro@ilsole24ore.com
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John McEnroe con James Kaplan,
Sul serio. La mia storia. Piemme, Milano, pagg. 376, € 18,50

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