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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2014 alle ore 08:16.

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Un corposo volume delle edizioni Esedra di Padova raccoglie gli Atti del XLI Convegno Interuniversitario di Bressanone nel luglio dello scorso anno sul tema Letteratura e denaro. Ideologie, metafore, rappresentazioni: in sostanza, la letteratura in rapporto col denaro come un fattore extraletterario che la influenza profondamente, soprattutto negli ultimi secoli. Anzi, più o meno sorprendentemente il denaro vi assume spesso non solo e tanto l'aspetto di tema letterario, ma riesce a svolgere una vera «funzione poetica».
Un nutrito drappello di studi s'incentra inizialmente sul Medioevo e sulle letterature romanze, quando e dove esso rende possibili le incantevoli rappresentazioni del fasto e della bellezza, della preziosità delle regge, delle armature del sesso forte e delle acconciature e vesti del sesso gentile. Ovvero è un ambiguo seduttore, strumento e di inganni e di conquiste, di matrimoni e di rovine.
Additato d'altronde come fonte di peccati, di lussuria e di simonia. Nella scena finale di un Ludus de Antichristo del XII secolo il Denaro sprofonda nel mare mentre si canta «Ecce homo che si affidò alla moltitudine delle sue ricchezze!», mentre a suo tempo Petronio garantiva nel Satiricon: «Chi ha soldi naviga con venti tranquilli».
Ecco dunque il denaro farsi appunto fattore letterario delle rappresentazioni del peccato a fronte della santità e del regno della salvezza. La moneta è anatemizzata dalla letteratura monastica. Nelle prediche di Guerrico di Igny dello stesso secolo la paupertas è definita come una ricchezza sovrabbondante d'oro, e di oro fino e ben temprato, di mirra e di aromi preziosi, per cui il povero abbonda di tante e sue e vere dovizie.
Se poi – saggio di Mario Mancini – si entra nei grandi poemi, nell'emblema e compendio quintessenziale del Medioevo qual è il Roman de la rose (ora in nuova suntuosa edizione bilingue nei Millenni Einaudi, pagine 1.021), il sogno giovanile che apre la prima parte, quella tutto fulgore mondano di Guillaume de Lorris, presenta la teoria dei garzoni e delle fanciulle allegoriche in una sequela di immagini fantasmagoriche, vera corte delle meraviglie, fra cui Ricchezza stessa e Povertà. La prima, tutta oro e ricami, scollatura generosa e collane, fa la felicità di un giovane di grande bellezza, che molto la apprezza. Mentre la seconda, Povertà, se ne viene raminga, «rintanata e rattrappita, nuda come un verme da crepare di freddo», vergognosa e disprezzata da tutti: «Sia stramaledetto il momento | in cui fu concepito il povero!».
Ben presto vengono tolti anche i condizionamenti morali legati all'acquisto, al traffico e all'uso della moneta. L'altra storia del Medioevo ora declinante, il Decamerone, poté essere definito «un'epopea mercantile» in cui il denaro è «denominatore comune di tutti i valori», e il mestiere del mercante si affranca dalla condanna del parassita e dall'ignominia dell'avidità e del l'usura. Il denaro è prova d'intelligenza e di Fortuna e non solo valore economico ma anche fattore sociale. E in letteratura, è motore di azione e di avventure rocambolesche, come nella novella di Andreuccio da Perugia (saggio di Helmut Meter).
Sull'usura e sull'usuraio si diffonde specificamente Ivano Paccagnella nell'intervento sui Monti di Pietà nel Cinquecento, riportando alcuni passi di uno dei Dialoghi, quello appunto dell'usura di Sperone Speroni (1537), nel quale è coinvolto Ruzante e all'elogio di quell'opera benefica si affianca anche il ritratto abominevole dell'usuraio di colorito tra negro e giallo «per una sua forte immaginativa di farsi ricco…, e certo essendo di essere infame per la sua usura, non può far che non se ne rattristi». Avanzando poi nei secoli, Paccagnella giunge ai letterati ottocenteschi che narrano o cantano «il Monte», da Vincenzo Monti al Belli, con la commare che impegna una coperta trapuntata per andare a divertirsi un po', e al «monte senza Pietà» di Carlo Dossi.
Ed ecco, prima degli interventi novecenteschi soprattutto su romanzi e poesie di Paolo Volponi, un interessante e divertente intervento di Fabio Danelon dedicato a Il denaro del/nel romanzo di Alessandro Manzoni. Divertente fin dalla citazione iniziale di Gadda: «Nei Promessi sposi si parla sempre di denaro: tante berlinghe, tante parpagliole, tanti scudi… è una delle ragioni per cui mi piacciono». Quei Promessi sposi che Luigi Einaudi, loro grande ammiratore, definiva a sua volta «uno dei migliori trattati di economia politica che siano mai stati scritti». Fabio Danelon lo documenta, e documenta il loro stesso Autore sotto questo profilo: il quale raccontava voluttuoso al l'amico Rossari nell'anno d'uscita dei primi Promessi sposi che il tipografo Gravier gli aveva contato il prezzo di alcuni esemplari «in tanti bei pezzi nuovi di franchi 5, l'uno sopra l'altro». Esattamente come Agnese contempla e maneggia chiusa in camera sua il mucchietto dei soldi ricevuti dall'Innominato.
Il denaro è il motore, l'eroe della nuova epopea incarnata dal romanzo e culminante (saggio di Elisa Gregori) nella Comédie humaine balzachiana, il suo attore «oscuro e terribile», come fu l'esperienza continua e l'assillo della vita stessa dell'Autore. La formula, citata della Gregori, che si legge nel capolavoro di Eugénie Grandet: «Veramente gli scudi vivono e brulicano come gli uomini: vanno, vengono, sudano, producono», è la sintesi della società, e del mondo "poetico" ottocentesco.
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Letteratura e denaro. Ideologie metafore rappresentazioni, a cura di Alvaro Barbieri e Elisa Gregori, Esedra editrice, Padova, pagg. XII-522, € 39,00

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