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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2014 alle ore 08:16.

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Il Torino Film Festival, abbandonata la formula del direttore-regista (quest'anno Paolo Virzì ha curato una piccola sezione come guest director), si conferma la manifestazione con il miglior radicamento e la migliore efficacia in Italia, pur se falcidiato da tagli dissennati che ne minacciano la tenuta. Per un concorso di opere prime seconde e terze come è quello torinese, inevitabile è vederlo come una istantanea delle nuove tendenze e magari delle nuove mode del cinema d'autore. La direttrice Emanuela Martini ha composto una selezione assai eclettica e variata. Tra l'altro in concorso c'era un horror, anzi quasi due: The Babadook, e il divertente finto-documentario sui vampiri, What We do in the Shadows, premiato per la miglior sceneggiatura. Il vincitore del concorso, Mange tes morts di Jean-Charles Hue, è un romanzo di formazione tra i rom, con protagonista un adolescente (come l'argentino Anuncian sismos su un'epidemia di suicidi tra i giovani, e Mercuriales di ragazzine di banlieue), con una struttura di ruvido realismo che vira al noir. Altri titoli si confrontano con una confezione più lustra o più spigliata: come il vincitore del secondo premio, For some inexplicable reason, o lo svedese Gentlemen, tra vintage e rilettura dei generi. Tra tutti spicca Maxime Giroux col suo Felix & Meira, intensa storia d'amore sullo sfondo dei chassidim di Montreal (premiati i due protagonisti).
I due film italiani in gara, entrambi esordi, cercano strade narrative nuove, secondo una via ormai fecondissima di incrocio con il documentario e con le altre forme espressive (il fumetto, il teatro, la musica). Le loro differenze, i loro meriti e i loro limiti sono illuminanti. N-Capace di Eleonora Danco è stato bene accolto e si è guadagnato una menzione speciale della giuria. In effetti, pur con la sua struttura narrativa singolare, non rinuncia a un rapporto caldo, complice, col pubblico. Il suo è un viaggio attraverso interviste a gente comune e meno comune sulle cose della vita, e a tratti sembra citare, più che Comizi d'amore, certe strisce di Cinico Tv. Alcuni momenti, come i dialoghi quasi agonistici col padre, sono irresistibili; malriusciti invece i siparietti teatrali all'aria aperta in cui l'autrice si mette in scena, in un letto o con un piccone in mano. Tuttavia se ne vede il senso: dichiarare il narcisismo alla base dell'inchiesta, che nasce da una fuga nel mondo esterno in seguito alla perdita della madre. La novità dell'altro italiano in concorso, Frastuono di Davide Maldi, è meno vistosa e accattivante, ma forse più radicale. Ed è sociologica prima che estetica. Raramente si erano visti nel cinema italiano adolescenti mostrati nella loro normalità, senza le scorciatoie del sensazionalismo o del paternalismo. Qui Iaui e Angelica, musicisti per noia e per passione, vengono pedinati in un percorso semi-documentario. Né corpi offesi e vampirizzati né macchiette, questi ragazzi ci rimangono serenamente estranei, mentre la regia li accompagna in un percorso orizzontale attraverso luoghi di provincia (Pistoia, colta con bello sguardo). In un Paese di editorialisti che parlano di «sdraiati», il partito preso del film è encomiabile, come il suo rifiuto di ogni ruffianeria. Il troppo rispetto per i personaggi rischia però di condurlo all'inefficacia. Mettendoci sotto gli occhi l'enigmatica presenza di questi adolescenti alieni, Frastuono rimane per lo spettatore un viaggio senza appigli e senza seduzioni, coraggioso e giusto, ma difficile da amare.
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