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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2014 alle ore 08:16.

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Sparita, o inghiottita, o disinfettata. Sono passati poco più di cinquant'anni dall'uscita di Mamma Roma (1962), e già la città di Pier Paolo Pasolini non esiste più, se non in rari e irriconoscibili brandelli, vittima di una cancellazione probabilmente senza uguali nel panorama dei luoghi letterari della grande narrativa europea del Novecento.
Ma non poteva essere diversamente. Pasolini non ha utilizzato lo sfondo della Roma monumentale e neppure quello altrettanto immutabile dei quartieri borghesi, con i loro edifici squadrati e quieti che oggi – fatte salve le parabole della tv e i modelli delle automobili che vi sono parcheggiate – sono del tutto uguali a un secolo fa. Il mondo delle sue narrazioni – il che le rende ancora più struggenti, e mitologiche – era un mondo provvisorio, destinato a durare la vita d'una farfalla. Si trattava del confine lungo il quale nell'immediato Dopoguerra (Pasolini arrivò a Roma nel 1950) la metropoli avanzava con le gru e i cantieri, creando uno spazio ibrido, magmatico, fatto di campagna ormai non più campagna e di città non ancora fattasi città. Un universo fatalmente destinato a essere spazzato via come una più ruvida e ruspante Macondo, ma senza la giungla, fatta solo di prati, stenti, e fango.
Fa impressione, oggi, andare a cercarsi i luoghi raccontati, o filmati, da Pasolini. Nella ex borgata di Casal Bertone il monumentale condominio dei ferrovieri con i due cerbiatti sulla facciata, quello dove abita Mamma Roma, in piazza Tommaso De Cristoforis, è circondato da un ipermercato (triscount, addirittura), da un albergo della catena Best Western e da un edificio tutto vetrato in azzurro tenue e bianco che sembra un improbabile pezzo di Ginevra piovuto lì per sbaglio. Due targhe sul cancello segnalano nel condominio la presenza di uno studio di commercialista e di un bed & breakfast. L'area un tempo agreste della fabbrica "Ferrobedò" (in realtà Ferrobeton), «un immenso cortile, una prateria recintata» nella quale il Riccetto va a rubare i rottami, è sepolta nell'oceano di cemento di Monteverde nuovo e del Portuense. Che oggi sono quartieri di media borghesia, ma allora, agli occhi dello scrittore, erano «valanghe d'immondezza, case non ancor finite e già in rovina, grandi sterri fangosi, scarpate piene di zozzeria». Il Monte di Casadio, sopra via Donna Olimpia, «piccola gobba ingiallita al sole», dove i ragazzi di vita trascorrono senza far nulla le loro giornate, non è più nemmeno leggibile, cancellato dalle palazzine.
Cinquant'anni dopo la linea della periferia – quella che Pasolini seppe dipingere come nessun altro usando una frase folgorante –, «la corona di spine che cinge la città di Dio», si è spostata molto più in avanti, e comunque non ha più l'aspetto di allora. Le baracche non ci sono più, l'edilizia si è quasi fermata, tutte le strade sono state asfaltate, i nuovi sottoproletari sono per lo più extracomunitari, a differenza di quelli romanissimi di Pasolini, dato che a Roma le borgate nascono – è bene ricordarlo – soprattutto per ospitare gli abitanti del centro storico sfrattati dai grandi sventramenti richiesti dalla retorica architettonica del Fascismo. Andarsi a cercare i resti del pasolinismo è una specie di percorso archeologico, si tratta di individuare lacerti, monconi. E se si trovano, non sono gli stessi. Il bar Necci al Pigneto, il baricentro del film Accattone, è diventato un ristorante alla moda. Ai tavoli non ci sono più Vittorio Cataldi e suoi amici disgraziati, ma i personaggi della movida intellettuale romana. L'acquedotto Felice al Mandrione, ricovero di zingari e prostitute, «con i prati coperti dallo sterco dei cavalli, e sotto la muraglia, una addosso all'altra, le baracche come tanti gallinari, con le finestrine e le porticelle di legno fracico e i tetti di bandone», è stato bonificato, e già si annuncia come nuovo luogo di culto per immobiliaristi alla ricerca di nuovi pezzi di città da valorizzare. Pietralata, forse la borgata più amata e citata da Pasolini, tra l'Aniene e la via Tiburtina, non è più fango, canneti e baracche, ma una delle zone di edificazione più intensiva (e meno dotata di verde) della città, dominata per di più dalle immense cubature della nuova stazione ferroviaria e dalla sede della Motorizzazione Civile.
Eppure, in mezzo a tante trasformazioni, a Roma con un po' di pazienza ancora qualche isola sperduta dove è un poco sopravvissuta la poetica di PPP ancora esiste. Per esempio, tra le casette che stanno intorno al Parco degli Acquedotti, tra l'Appia e la Tuscolana, un mondo di piccoli orti all'ombra delle rovine, estremo lembo di quel Quadraro dove si consuma in tragedia la vicenda di Roma Garofolo. Oppure nel saliscendi di Vigna Mangani, incastrata in una fetta di collina tra l'Aniene e la ferrovia ai margini di Pietralata, scheggia inservibile all'edilizia e perciò risparmiata. O dietro al carcere di Rebibbia, sulla Tiburtina, vicino a via del Tagliere, che fu a Roma una delle case dove abitò Pasolini.
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Sabato 2 dicembre a Milano, alla Libreria Jaca Book di via Frua, 11, serata dedicata a Pasolini in occasione dell'uscita del libro PPP. L'insensata modernità di Piero Bevilacqua (Jaca Book)

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