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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2014 alle ore 08:14.

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Mentre frequentavo l'Università di Sydney, mi capitò di leggere il testo di Norbert Wiener, Cybernetics: Or Control and Communication in the Animal and the Machine. Ne fui convertito: da matematico puro divenni un matematico affascinato dalla sfida di comprendere il cervello. Mi iscrissi al dottorato del Mit, dove Wiener lavorava, e nel 1964 pubblicai il mio primo libro, Brains, Machines & Mathematics. Nei decenni successivi continuai a lavorare alla teoria matematica della computazione e del controllo, e alla teoria del cervello che contribuì a spostare l'attenzione nella scienza cognitiva dal processamento di simboli astratti al ruolo del cervello e del corpo nella cognizione.
Nel corso degli anni, con colleghi e studenti a Stanford, all'Università del Massachusetts e oggi all'Università della California del Sud, continuai a scoprire modi affascinanti in cui modelli del cervello illuminano la cognizione umana. In che modo studiare le rane che acchiappano le mosche può aiutarci a capire i movimenti oculari degli esseri umani? Cosa ci dicono le ferite da arma da fuoco dei veterani della Prima guerra mondiale sul modo in cui il cervelletto produce movimenti aggraziati? Influenzato dal neuropsicologo francese Marc Jeannerod, esplorai come il cervello connette la visione all'azione manuale, e da lì emersero nuove idee sulle basi neurali del linguaggio.
Negli anni novanta, io e Jeannerod unimmo le forze con Hideo Sakata a Tokio e Giacomo Rizzolatti a Parma, integrando studi di neuroimmagini sul comportamento umano con registrazioni neurofisiologiche su singoli neuroni nel cervello dei macachi. Quando Rizzolatti e colleghi scoprirono i neuroni specchio nelle scimmie (neuroni che si attivano sia quando l'animale compie un'azione sia quando la vede compiere da altri), il mio gruppo ne sviluppò il primo modello computazionale, mostrando come potessero emergere durante l'apprendimento.
Sorprendentemente, studi di neuroimmagini in California e a Milano localizzarono il sistema specchio nel cervello umano all'interno o in prossimità dell'area di Broca, un'area associata al riconoscimento delle parole. Che ci facevano neuroni legati ad azioni manuali in un'area dedicata alla parola? Io e Rizzolatti notammo che l'area di Broca è coinvolta non solo nella lingua parlata, ma anche in quella dei segni, e ipotizzammo che ciò indicasse un ruolo cruciale dei gesti manuali nell'evoluzione del linguaggio. Nel 1998 pubblicammo l'articolo Language within our grasp, e le mie ricerche successive sul tema si tradussero nel 2012 in un libro, How the brain got language.
Ancora oggi, comprendere le interazioni fra cervello, azione e linguaggio resta una sfida formidabile. Ma ora sappiamo, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la predisposizione al linguaggio tipica del cervello umano può essere spiegata esclusivamente in termini di cognizione incorporata. Il cervello da solo non parla, ma il cervello in azione di un soggetto sociale può essere molto eloquente.
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