Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2014 alle ore 08:16.
Peter Doig è un personaggio misterioso, non più facile da decifrare delle figure che compaiono nei suoi dipinti. Nato a Edimburgo nel 1959, trasferitosi due anni dopo con i genitori a Trinidad, nelle Antille, e dopo altri cinque anni in Canada, oggi Doig lavora tra Londra, New York e Trinidad. È uno dei pittori viventi più quotati del mondo: il suo Country Rock del 1999 è stato battuto a giugno da Sotheby's London per 15 milioni di dollari. Forse anche per questi passaggi in asta da record, Doig gode di una notorietà che quasi stupisce, data la relativa ermeticità del suo dipingere, colmo di citazioni e capace di toccare estremi opposti della figurazione contemporanea.
Lo incontro alla Fondazione Beyeler di Basilea la sera prima dell'opening della mostra personale che il museo svizzero gli dedica, e il curatore Ulf Kuster avvisa: l'artista è nervoso. Non ha ancora finito di dipingere, c'è un quadro che non è pronto, non vuole essere fotografato, niente smartphone. Doig arriva e nonostante i 55 anni è un ragazzo. Ha la camicia sdrucita, gli occhi rossi perché dipinge fino a tarda notte (è il primo artista nella storia a usare la Beyeler come studio, sta finendo un grande murale nel seminterrato), ha il respiro trattenuto, le mani inquiete, le scarpe coperte di schizzi di colore e le unghie verdi di vernice.
Il verde è anche il colore delle tele con cui la mostra si apre: nei suoi primi paesaggi celebri degli anni Novanta è già chiarissimo il ruolo della natura dipinta come specchio di uno stato emotivo, contraltare alla presenza umana. Sono quadri strani, come libri senza trama precisa, non se ne capisce facilmente la genesi: cosa viene prima? Il soggetto, il disegno, il colore? «L'atmosfera», dice Doig: «non ho mai un piano preciso nella testa ma so che voglio come risultato un'atmosfera». Tra tele conosciute e opere recenti (più una selezione di stampe e incisioni mai esposte al pubblico), la mostra raduna grandi lavori che passano da un registro all'altro: in alcuni la figura umana è perfettamente integrata nella scena, in altri non è che un frammento, un'intuizione aliena che pare esistere su un piano completamente diverso dal paesaggio. «A volte», spiega Doig «dipingo persone assorte che cercano di capire, di trovare un senso nell'ambiente intorno a loro. Ma in realtà il ruolo della figura è sempre lo stesso: catturare l'attenzione di chi guarda e avvincerlo, attirandolo nel quadro». Una volta "dentro", l'occhio ha a che fare con un ambiente che a tratti è impressionista e altrove quasi astratto: alberi e forme vegetali che diventano filtri per la visione, acque e terre che si diluiscono o si raggrumano. Con un lavorare meditabondo che riflette sul potere della pittura stessa («Mentre dipingo un quadro penso sempre ad altri pittori, ad altri quadri»), Doig raggiunge quell'equilibrio tra figura e concetto che è indispensabile alla pittura contemporanea per essere grande. «Quando ti avvicini cambia tutto. Ti perdi nella grana del materiale, ti accorgi che la tela è un dispositivo, un device», osserva. Ecco allora dipinti carichi, pienissimi di "informazioni" e altri quasi liquidi, "thin" dice lui, in cui la superficie cede alla profondità. Nevicate chiarissime, cieli stellati e tavolozze notturne di nero e di marrone, collocate davanti alle grandi vetrate della Beyeler ad assorbire quanta più luce naturale possibile; le sue griglie fitte, come muretti di mattoni colorati, le sue celebri canoe, le isole galleggianti, tele su cui ha lavorato per mesi e anni accantonandole e poi riprendendole: «Ogni quadro è una reazione. È il frutto del passare del tempo, il risultato di dubbi. La pittura è un viaggio, a volte scomodo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Peter Doig. Basilea (Svizzera), Fondation Beyeler, fino al 22 marzo. www.fondationbeyeler.ch.