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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2014 alle ore 08:20.

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Libro notevole e stranissimo, Facce. Fin dalla prima riga l'autore, Hans Belting, ammette che lo scopo del sottotitolo — Una storia del volto — possa sembrare un «bell'azzardo». E lo è. Non so quanto il testo riesca nell'intento, ma di sicuro ha una costante: ruota per intero attorno alla dialettica volto/maschera, la chiave del nostro rapporto con l'arcano del viso. Belting studia il volto innanzitutto come una metonimia del corpo.

Secondo un esperimento dello psicologo Michael Argyle, più ci avviciniamo a una persona più il volto appare indipendente dal resto: siamo circondati non tanto da corpi, bensì da facce in continuo mutamento. Noi infatti abbiamo un volto, ma lo agiamo anche, lo creiamo e ricreaimo tramite la mimica. Di fronte a tale metamorfosi senza fine, la maschera funeraria dell'antichità voleva restituire un'immagine sola: non quella del cadavere, ma quella del «vero volto». Naturalmente in questa promessa è contenuta anche la maledizione della stasi. La maschera (elemento magico per eccellenza) riassume un individuo, ma ne suggerisce anche la fine.

Nella lotta fra questi due termini, Belting si concentra su un momento particolare: l'intervento del medium-ritratto, un fattore unico della cultura europea. Da un punto di vista sociale e per così dire filosofico, il ritratto è un momento chiave per l'emancipazione del soggetto. Con una riproduzione “ufficiale”, l'individuo assume una testimonianza della sua identità e un cosmo di diritti. (Per questo Van Eyck appone età e nome del soggetto a ogni quadro: il pittore si fa garante dell'autenticità del volto). La modernità è racchiusa proprio nel passaggio dall'icona al ritratto, dal sacro Volto di Cristo ai molti volti dei dipinti individuali. Belting sottolinea come questo scarto provochi anche un mutamento nell'osservatore: a differenza dell'icona, il ritratto consente un rapporto paritario — c'è dialogo. Basta confrontare la Sindone con il Sorriso dell'ignoto marinaio di Antonello da Messina.

Questa forma di indagine del soggetto trova un apice e insieme la sua crisi durante l'Illuminismo, quando viene tematizzato per la prima volta il legame fra maschera e menzogna. Su questa scia nasce la fisiognomica, il tentativo di una scienza affidabile delle facce, capace di svelare l'autentico carattere che si nasconde dietro la mimica. Il potere rituale delle maschere si perde. Non rappresentano più una sintesi dell'io, bensì sono finzioni sociali indossate per rendersi altro: il pensiero occidentale le tratterà come reperti, sperando di esorcizzarne la suggestione di morte. Ma la speranza è vana. Con il Novecento si impone quella che Thomas Macho chiama società facciale. Una società determinata dai mass media dove il volto è onnipresente, ma non produce che nuove e più glaciali maschere, siano quelle delle masse anonime o quelle dei dittatori. (E non a caso il luogo dove ora tutti siamo si chiama Facebook). Il desiderio di trovare un “vero volto” viene spazzato via dall'alienazione metropolitana; e la stessa crisi si può osservare nel ritratto, che perde ogni valore di ricognizione epistemica. Francis Bacon cerca di infrangerne per sempre la fissità facendo “esplodere” il volto, rendendolo di nuovo una mera testa.

Il grido silenzioso dei suoi papi è il vero oggetto del dipinto: un corpo che si ribella contro la maschera facciale. Anche fotografia e cinema, pur con la loro pretesa di riproduzione esatta, non creano che altre maschere. È anzi proprio grazie alla fotografia che giungiamo alla società facciale: da un lato la riproducibilità assoluta dei visi genera uno strumento di controllo (l'archivio di polizia, le fototessere); dall'altro consente di imporre facce ingigantite, dove «un solo volto sottomette la moltitudine dei volti dei passanti». L'enorme faccia del ditattore, come quella di una star del cinema, è una maschera assoluta contro cui «i volti naturali non hanno alcuna chance». Chi osò sporcare il ritratto di Mao a Tienanmen nel maggio 1989 subì carcere e torture: l'icona del Potere non ammette dissenso alcuno. Pur con un andamento rapsodico e qualche limite (specie quando discute dell'immagine digitale senza nominare la proliferazione di visi scatenata dalla moda del selfie), Facce è una lettura deliziosa, anche se lascia la sensazione di uno scacco. Dal ritratto al cinema, la rappresentazione occidentale del volto non riesce mai a scacciare l'incubo della maschera: anche quando semplice presagio di un altro io, inaccessibile, che ci osserva. Come l'attrice muto nel film di Bergman, Persona. Che in latino, ovviamente, significa “maschera”.

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