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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2014 alle ore 11:22.

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C'è una domanda che uno scrittore detesta più di ogni altra, e non è: «Il tuo romanzo contiene qualcosa di autobiografico?». No, la domanda che lo manda davvero in crisi è: «Di che parla il tuo libro?». Se il malcapitato è capace di riassumere la trama in un paio di concetti rotondi e perfetti, sente di non essere uno scrittore abbastanza complesso. Se invece non riesce a farlo, sa di aver perso un lettore e reso infelice l'ufficio stampa. C'è solo un caso in cui prova più imbarazzo, ed è quando all'autore in questione, se scrive in lingua occidentale ma ha evidenti legami con le ex colonie, viene posta un'altra domanda: «Da dove vieni?».

A Zia Haider Rahman, autore dell'ambiziosissimo e giustamente acclamato In The Light of What We Know (ancora nessuna notizia sull'uscita italiana) va male in entrambi i casi: innanzitutto perché il suo libro non parla di qualcosa che non sia tutto, e poi perché è uno di quegli inglesi che vengono per forza da un'altra parte. In una sinossi brutale, l'anonimo e benestante narratore ritrova il suo vecchio amico matematico Zafar in condizioni derelitte sull'uscio di casa a Londra. Per cinquecento pagine che corteggiano la spy story senza cedere alle sue lusinghe fino in fondo, i due uomini non fanno che chiacchierare: dei teoremi di incompletezza di Gödel, dell'Afghanistan, del cuore di tenebra delle Ong, del crollo dei mercati e di che cosa significhi venire dal Pakistan o dal Bangladesh senza aver mai davvero abitato quei luoghi e ottenuto una cittadinanza in quella lingua.

Come tanti protagonisti della letteratura postcoloniale, il malessere di Zafar, destinato a erompere in un'occasionale furia, è quello di non appartenere. Chiedere a Rahman da dove viene è quasi più fuori luogo che tentare di ridurre il suo libro di conversazioni a una trama. A tutti gli effetti cittadino inglese, l'autore è nato in Bangladesh e si è trasferito a Londra con la famiglia dopo il genocidio e la guerra di secessione dal Pakistan nel 1971. Laureatosi a Oxford, ha lavorato per Goldman Sachs prima di diventare un avvocato esperto di diritti umani, esattamente come il protagonista del romanzo. La storia della letteratura è piena di biografie più intricate della sua, ma pochi autori sono riusciti a ottenere un canto della non appartenenza più dolente e allo stesso tempo arrabbiato di questo, adeguandolo perfettamente ai tempi: c'è un momento in cui l'emarginazione smette di essere una questione di etnia e torna a essere una questione di classe; in cui il colore delle idee non riesce a essere più rilevante del colore dei soldi.

Come NW di Zadie Smith, In The Light of What We Know non è un attacco al razzismo inglese, ma al suo classismo. E come Chimamanda Ngozi Adichie, l'autore rivendica il diritto di definirsi socialista, femminista o buddhista ancor prima che emigrato: la malinconia dell'etnicità perduta non è più concreta del desiderio di affrancarsi da essa. Eppure è al Bangladesh e alla patria mai avuta e visitata da ragazzino che sono dedicate le pagine più intense del romanzo, fatte di pericolo incombente e di mappe geografiche come croste in costante suppurazione che sarebbero piaciute a Joseph Conrad.

Perché il romanzo di esordio di Zia Haider Rahaman è proprio questo: un Grande Gatsby scritto da V.S. Naipaul per il lettore invaghito di Cuore di tenebra. L'autore è in buona compagnia: da prospettive diverse, anche Teju Cole e Joseph O'Neill hanno cercato di scrivere il romanzo-mondo sulle identità post 11 settembre, ma i loro erano libri di grandi idee dagli esiti noiosi. Qui, salvo qualche didascalia che fa pericolosamente La filosofia spiegata a mia figlia, ci sono solo le idee, anche quando sono mutuate da un elenco sterminato di autori e filtrate in una serie infinita di passaggi (ogni capitolo del romanzo contiene tre epigrafi che descrivono una storia a sé).

Nel film The Others, Nicole Kidman era indaffarata a chiudersi ogni porta alle spalle prima di aprirne un'altra per evitare il passaggio dei fantasmi: l'autore di In The Light of What We Know fa esattamente il contrario, continuando a spalancare porte su porte per liberare il condominio postcoloniale dai fantasmi e rivestirlo di una tinta brillante che non ha alcun merito, e nessun difetto, se non di essere letteratura. E lo fa talmente bene che c'è una sola domanda che uno scrittore nelle sue condizioni rischia di odiare più di tutte, persino più di quelle altre due. E cioè: «Dopo un esordio così, che cos'altro puoi scrivere?».

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