Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2014 alle ore 08:23.

My24

Nella mia vita ho perlustrato a fondo le centinaia di quartieri di cui è composta questa città». La città è New York e la vita è quella di Joseph Mitchell. L'incipit viene dal memoir Una vita per strada (Adelphi), pubblicato lo scorso anno dal New Yorker come omaggio postumo a uno dei suoi autori più rappresentativi. Arrivato dalla Carolina del Nord per diventare giornalista politico, Mitchell è entrato nella redazione del New Yorker nel 1938, rimanendoci fino al giorno della sua morte avvenuta a metà degli anni Novanta. Con i suoi profili (raccolti nel volume Up in The Old Hotel) ha composto una galleria coerente di personaggi ai margini della società di metà Novecento, andandoseli a cercare con la passione di un collezionista. Barboni eccentrici, una donna barbuta, il custode di un cimitero, una coppia sfrattata finita a vivere in una caverna a Central Park. Mitchell è adatto per chi ha amato Americani di John Jeremiah Sullivan (Sellerio) o il David Foster Wallace autore dei reportage da posti assurdi di Considera l'aragosta (Einaudi).
Una vita per strada in realtà è il primo e unico capitolo che Mitchell abbia scritto del suo memoir, dal 1964 in poi non ha scritto più niente. È anche meno bello dei profili scritti per il New Yorker, e dei suoi racconti di pura finzione (scritti però come fossero dei profili), la bella notizia è che Adelphi ha in programma anche gli altri tre libri di Mitchell ancora inediti in Italia.

Sempre ad Adelphi si deve la traduzione del capolavoro e long-seller Il segreto di Joe Gould, l'ultima cosa significativa scritta da Mitchell, sempre nel 1964. Forse la storia di Joe Gould può fare da chiave per capire un po' meglio anche Una vita per strada. Joe Gould era un barbone di buona famiglia che aveva frequentato Harvard prima di fuggire nel Greenwich Village, famoso in città perché si diceva stesse lavorando a una Storia Orale fatta delle trascrizioni di migliaia di conversazioni di cui era stato testimone, scritta su numerosi quaderni nascosti in vari punti della città. Il libro è composto da due profili che Mitchell ha scritto su di lui, a distanza di più di vent'anni l'uno dall'altro. La differenza tra primo e secondo profilo sta nel tempo passato a cercare di convincere Joe Gould a fargli leggere la Storia Orale e magari pubblicarla. Ma Gould continuava a rifiutarsi anche solo di fargliela vedere.

Dopo il 1964, nella redazione del New Yorker vedevano Mitchell entrare e uscire, ma da dietro la porta della sua stanza non arrivava il ticchettio della macchina da scrivere. A un collega Mitchell confessò che sentiva Gould così vicino che gli sembrava di aver scritto di se stesso. Una vita per strada, cominciato e poi abbondato, magari serviva proprio a questo: a completare la sua trasformazione in Joe Gould. Si spiegherebbero così anche le differenze di stile tra i profili di Mitchell e Una vita per strada. A cominciare dal tono solenne con cui elenca le sue strade preferite, gli edifici da cui si sente attratto, i dettagli architettonici che lo colpiscono. O con cui racconta che a volte, invece di entrare in ufficio, girovagava per tutto il giorno fino a «una diroccata banchina di scarico del lungofiume di Brooklyn» o «nell'angolo più trascurato di un vecchio cimitero del Queens invaso dalle erbacce»; che a spingerlo era il pensiero della morte, la possibilità di poter scoprire troppo tardi che «le fiamme dell'inferno esistono davvero».

Invece, quando Mitchell indaga su un misterioso mendicante somigliante a Babbo Natale che, dopo aver elemosinato un pranzo, spariva lasciando dietro di sé assegni con troppi zeri per essere veri (e infatti non lo sono), arriva alla conclusione che c'era qualcosa di sinistro in quella finta riconoscenza, e in tutte le persone illuse che gli assegni fossero veri, ma non chiama in causa le fiamme dell'inferno. Anche il suo sguardo su Commodore Dutch, un barbone con un nome pretenzioso e inventato, che organizzava uno squallido ballo annuale a cui non andava nessuno ma che gli serviva da scusa per scroccare soldi, è privo di giudizio morale.

Il Mitchell scrittore di profili si accontentava della realtà opaca, e degli spazi vuoti tra un pezzo e l'altro della realtà che era riuscito ad accostare. Quello di Una vita per strada invece suona ampollosamente falso come uno dei suoi personaggi. Qual era il vero Mitchell? Forse Mitchell si era spinto troppo in là con la questione dello scrittore che si immedesima con i propri soggetti. Peccato che nessuno abbia deciso di scrivere un profilo su di lui e sul suo incompleto Una vita per strada, magari avrebbe scoperto il suo segreto.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi