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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2014 alle ore 10:31.

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Bobby Keys con i Rolling Stones in studioBobby Keys con i Rolling Stones in studio

Chi lo considera un semplice turnista faccia un esercizio facile facile: prenda tre superclassici dei Rolling Stones - «Brown Sugar», «Can't you hear me knocking» e «Sweet Virginia» - e provi a immaginare cosa resterebbe se cancellassimo l'assolo di sassofono. Quel diavolo di Keith Richards, uno cui sono concesse tutte le licenze di questo mondo, risponderebbe: cinque ubriaconi che si danno da fare tra voce, chitarre, basso e batteria. Qualsiasi uomo di buonsenso opterebbe invece per «un vuoto vertiginoso».

Più o meno quello che si lascia dietro Bobby Keys, il sassofonista di Slaton Texas che se n'è andato ieri, nella casa di Franklin Tennesse, a poco più di due settimane dal suo settantesimo compleanno. Il suo sax tenore dagli inconfondibili fregi dorati è stato per buoni 45 anni il cordone ombelicale che teneva unita la band inglese alla grande tradizione musicale degli Stati Uniti. Da «Let it Bleed», album del '69 con il quale cominciò la sua collaborazione con i Glimmer Twins, all'ultimo tour mondiale che tra le altre cose lo ha visto, a giugno di quest'anno, acciaccato ma comunque ispirato davanti ai 70mila del Circo Massimo. Con un vistosissimo cappello da cowboy calato sulla fronte.

Il dolore di Keith Richards
Se ne va dopo una lunga e lacerante cirrosi epatica, come ha ricordato alla stampa americana Michael Webb, compagno di session e tastierista. A ottobre gli Stones avevano annunciato che non avrebbe partecipato alle date australiane e neozelandesi del «14 on Fire Tour» per ordine dei medici. Ieri i membri della band hanno diffuso un comunicato nel quale si dicono «devastati dalla perdita di un carissimo amico e leggendario sassofonista» che «ha dato un contributo musicale unico al gruppo sin dagli anni Sessanta». Richards su Facebook di suo pugno ha rincarato la dose: «Ho perso il più grande amico al mondo e non riesco a esprimere il senso di tristezza che provo, sebbene Bobby mi direbbe di tirarmi su».

Gli esordi con Buddy Holly
Era nato a Hurlwood Texas, da una recluta dell'aereonautica americana in servizio alla base di Lubbock e una ragazza di 16 anni. Quando i genitori si trasferirono nel New Mexico, il piccolo Bobby rimase a Slaton con i nonni. Fu proprio lì che all'età di dieci anni vide un giovanissimo chitarrista rock and roll esibirsi all'inaugurazione di una stazione di servizio. Si chiamava Buddy Holly «e proprio allora capii», racconterà nella sua autobiografia, «cosa volevo fare nella vita». Non aveva tuttavia la chitarra e finì col ripiegare sul sax, strumento che gli era stato assegnato per la banda scolastica. Cinque anni più tardi sarà in tour per gli States con Bobby Wee e lo stesso Buddy Holly. Con gli Sones entra il contatto per la prima volta nel 1964 al San Antonio Teen Fair. Con Richards scoppia subito l'amore: i due sono nati entrambi il 18 dicembre e Keith è il tipo da credere nel destino. Quando si tratterà di incidere «Let it Bleed», il primo disco consapevolmente «americano» del gruppo inglese, lo vorrà al sax su «Live with me». Sarà l'inizio di un lungo viaggio.

Il sax di «Sticky Fingers»
In Inghilterra il ragazzo si fa un nome. Gli anni Settanta sono quelli delle collaborazioni con Joe Cocker (suo il sax in «Mad Dogs & Englishmen»), George Harrison («All things must pass») ed Eric Clapton (l'omonimo dell'esordio solista) ma soprattutto dell'entrata in pianta stabile negli Stones, a partire da quel capolavoro di «Sticky Fingers». Si trattò soprattutto di lavorarsi Mick Jagger. Che, in quel periodo, stravedeva per il sound di Otis Redding. Nulla di più facile che convincerlo a introdurre una sezione di fiati. Ma se vai con gli zoppi, va a finire che impari a zoppicare: nel 1973 Keys dovrà concedersi uno stop a causa dei problemi con l'eroina. Farà in tempo a suonare con John Lennon che, per «Walls and Bridges», aveva cooptato tutti i sessionmen degli amici Stones. Richards se lo porterà dietro con Ronnie Wood nell'avventura dei New Barbarians e, da «Steel Wheels» in poi, lo vorrà in ogni live act delle Pietre Rotolanti. Come poteva non esserci corrispondenza d'amorosi sensi tra l'anima scalmanata della band più oltraggiosa della storia del rock e un musicista raffinato e versatile che ti intitola la propria autobiografia «Every Night's a Saturday Night»?

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