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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2014 alle ore 08:46.

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Tra follia e visione. Homeland doveva essere la versione per adulti di 24. Stessi produttori, il tema del terrorismo. Bisogna capire se sia adulto accettare in una materia come quella di Homeland una mancanza assoluta di realismo. Nella quarta stagione, ora in corso, quest'assenza di realismo (che però non arriva agli estremi fieramente camp di Scandal) si manifesta dalla prima scena: Carrie Mathison, agente Cia e protagonista, chiede alla sua scorta di farla scendere dall'auto per fare due passi per una Kabul illuminata da pochi fuochi, per giunta in tailleur, bionda, e senza velo. Carrie è il capo e la fanno scendere. Il problema è che ha fatto scelte così discutibili in passato, con conseguenze così gravi, che la scorta dovrebbe cortesemente impedirglielo. Per dirla tutta, Carrie non dovrebbe neanche essere lì, non dovrebbe avere quel lavoro. Ma senza quel lavoro non ci sarebbe la serie.

D'altra parte, anche senza Carrie non ci sarebbe la serie. È un personaggio così riuscito che è stata scimmiottata da Anne Hathaway al Saturday Night Live. E però, poche settimane fa, Sophie Gilbert su The Atlantic l'ha definita sciatta e poco professionale: «Se non fosse una serie tv non la lascerebbero avvicinare a meno di dieci miglia da Langley», la sede delle Cia in Virginia. Già lo scorso anno, il critico tv di Grantland, Andy Greenwald, scriveva: «È ora di ammettere ciò che è palese: Carrie Mathison sul lavoro è incapace».
Questa impossibile inadeguatezza di Carrie è un errore di sceneggiatura o la grande forza delle contraddizioni? All'inizio, è ciò che ci ha catturati. Il personaggio di Carrie era affascinante per due ragioni: era mezza pazza e lavorava fuori dalla regole; era un genio visionario sempre un passo avanti agli altri. Dopo tre stagioni, la genialità è scomparsa ma lei ha ancora il lavoro.

Affanni di scrittura
Nella quarta stagione a Crazy Carrie viene dato un copione ancora più sciatto e poco professionale del suo personaggio. Ecco la scena in cui Quinn, una spia con la coscienza sporca che ha deciso di uscire dalla Cia costi quel che costi, quasi uccidendo uno dei capi che va a casa sua per convincerlo a restare, alla fine cede alle richieste di Carrie via telefono: «E dai, non ti far pregare» fa lei, senza sbattersi troppo. «Mi dispiace, Carrie, non posso». Carrie con voce capricciosa: «Ti prego, ti prego». Si fa fatica a rintracciare sottotesti e motivazioni dei personaggi, si sente solo l'affanno degli sceneggiatori.
La produzione ha scelto di ripartire da zero dopo aver esaurito completamente il rapporto fra Carrie e Brody, il terrorista. Con un finale che vedeva Saul che passava a lavorare nel settore privato, Carrie reintegrata, Quinn esausto, veniva voglia di lasciarli lì. Gli autori però hanno deciso di riportarli nei ruoli iniziali, ignorando (o forzando) il percorso fatto: una scena per farci capire che Saul nel settore privato si annoia, un paio di episodi per convincerci che Quinn è segretamente innamorato di Carrie quasi a propria insaputa, il resto della stagione perché Carrie costruisca un caso che dia senso alla sua ossessione e al suo lavoro. Così abbiamo dei personaggi che parlano in un vuoto psicologico. Cosa si intende per vuoto psicologico: per dirne una, a Carrie sono spariti i sintomi di bipolarismo.

Niente happy ending
Forse dipende da una specie di esaurimento nervoso della serie: questo rifacimento di un prodotto israeliano non aveva previsto un coinvolgimento tanto intenso tra Carrie e Brody: la storia si era un po' scritta da sé nel momento in cui i produttori avevano visto l'effetto che facevano i due attori, Claire Danes e Damian Lewis, insieme sullo schermo. Va detto che la serie ha avuto il coraggio di rinunciare a un happy ending per i due, ma ora che la serie è ricominciata troviamo i personaggi spremuti e i dialoghi vuoti. A Carrie è rimasta la scusa dei disturbi bipolari, ma il mondo in cui si muove non ha neanche quella.

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