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Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2014 alle ore 08:16.

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Proseguendo nel suo accidentato periplo intorno al tema della tradizione – un nucleo di valori e di linguaggi da cui prendere furiosamente le distanze, e da rivivificare con folgoranti trasposizioni – Antonio Latella si accosta per la prima volta a un'opera di Eduardo, scegliendo non a caso Natale in casa Cupiello: la natura ambivalente del suo intervento si coglie particolarmente bene nei confronti di questo testo così modernamente e lucidamente amaro, su cui egli si avventa con lancinante adesione emotiva ma anche con una vena cupamente rabbiosa spinta quasi alla soglia di un'implicita violenza.
La vicenda di Luca Cupiello che, perso in un sogno di presepi natalizi, non si avvede dello sfascio della sua famiglia, e tanto meno riesce a contrastarlo, viene sfrondata di qualunque residuo patetico, osservata con occhio impietoso. La densa messinscena si sviluppa in un doppio percorso dal vuoto al pieno: da un lato passa progressivamente da una forma di non-rappresentazione – gli attori che non si identificano coi loro personaggi, ma li analizzano e li commentano dall'esterno – a una sorta di iper-rappresentazione prossima al melodramma, dall'altro lato parte da un'apparente leggerezza per scivolare in un clima da incubo, di forte presa grottesca. Ognuno dei tre atti ha una sua cifra stilistica, ognuno è come una tappa di questa caduta del protagonista dentro il metaforico presepe in cui ha provato a ingabbiare la complessità della vita. Ma nell'intero spettacolo la chiave del racconto, della descrizione dell'azione al posto dell'azione stessa sembra alla fine prevalere, come se della pièce di Eduardo si conservasse il nocciolo duro, feroce, scavalcandone la struttura teatrale originaria: la celebre scena in cui Luca, il figlio e il fratello entrano nel momento meno adatto vestiti da re magi e cantando Tu scendi dalle stelle viene ad esempio appena accennata, ma con un risultato non necessariamente meno forte. Per l'intero primo atto tutta la compagnia resta immobile, disposta in fila di faccia al pubblico, formando un coro che declama le didascalie e le indicazioni dell'autore: da quel coro si staccano di volta in volta i vari personaggi, che enunciano i propri gesti senza compierli – «attraverso la stanza con una tazza di caffé in mano», «fingo di dormire» – e vi aggiungono le battute del copione pronunciandole quasi nello stesso tono. Cupiello, come un "doppio" di Eduardo, scrive le parole nell'aria, insistendo su eventuali accenti gravi o circonflessi. Dietro di loro, con effetto mozzafiato, incombe e risplende una gigantesca stella cometa.
Nel secondo atto gli attori invece si muovono, portando con sé degli enormi e un po' sinistri animali di peluche, polli, pecore, vitelli, gli animali del presepe, ma anche le pietanze del pranzo natalizio. Concetta, la moglie di Cupiello, si aggira trainando il carretto brechtiano di Madre Coraggio, il carro della famiglia, della vita, che diventa una specie di carro funebre in cui verranno ammucchiati i fantocci animaleschi. È lei, la bravissima Monica Piseddu – ci fa intendere il regista – la vera protagonista, mentre al marito, che è l'intenso Francesco Manetti, tocca evocare un non-essere, un'inconsistenza.
Nel terzo atto Cupiello, che ha avuto un colpo apoplettico dopo avere involontariamente causato la rottura tra il diletto genero e la figlia, svelando l'intento di costei di fuggire con l'amante, giace nudo nella culla-mangiatoia di un ideale presepe, farfugliante, rattrappito in posizione fetale, vegliato da Concetta in veste di monaca o madonna. Cala dall'alto, cantando, il portinaio con ali angeliche. Il medico, lo strepitoso contraltista Maurizio Rippa, intona La calunnia è un venticello, e tutti cantano le loro parti. Poi Tommasino, il figlio cui non piace il presepe, afferra un cuscino e lo appoggia sul volto del padre, soffocandolo. Attorno al neonato-cadavere vengono infine condotti un bue e un asino vivi.
Nello spettacolo che ha debuttato al Teatro Argentina di Roma c'è, come si può capire da questa scarna sintesi, una gran quantità di immagini, di materiali, uno stratificarsi di invenzioni e di intuizioni in cui non è facile trovare un unico filo conduttore. La regia è molto pensata, molto studiata, una delle creazioni più potenti e complesse di Latella, che forse, di fatto, da un certo momento in poi tende a metterci anche qualcosa di troppo: la parentesi canora, ad esempio, c'entra poco col resto, e l'eutanasia finale a mio avviso non aggiunge nulla, anzi appare un eccesso decisamente superfluo.
Ma questo Natale in casa Cupiello non può essere giudicato sul metro di un normale approccio al testo, che offre spunti vigorosi, ma ne viene ampiamente trasceso: la "prima" cadeva nel giorno in cui emergeva uno dei casi di malaffare più clamorosi degli ultimi anni, in una Roma attonita, sconvolta, e questa circostanza magari non c'entra nulla, ma serve a inquadrarlo nella giusta luce. Al di là della trama, al di là dei singoli dettagli lo spettacolo è l'espressione di un pessimismo totale, della fine di qualunque speranza collettiva. È un natale sull'orlo della catastrofe quello che ci annuncia, l'espressione di una tragedia allo stato puro, la tragedia di un popolo, di un Paese alla deriva.
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Natale in casa Cupiello, di Eduardo De Filippo, regia di Antonio Latella. Roma, Teatro Argentina, fino al primo gennaio

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