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Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2014 alle ore 08:15.

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Quando, alla morte del padre nel 1553, ereditò il ducato di Savoia, Emanuele Filiberto, passato alla storia come "Testa di ferro", aveva da poco compiuto venticinque anni. Non molto alto, magro, il volto ovale circondato da un accenno di barba, il portamento austero com'è ritratto nel bellissimo quadro di Giacomo Vighi conservato nella Galleria Sabauda di Torino, era uomo di bell'aspetto, dotato di buona cultura e votato al mestiere delle armi. La sua educazione era stata equamente divisa tra esercizi fisici, attività sportiva e preparazione umanistica. Un ambasciatore della Serenissima, Matteo Zane, ne ha lasciato un'incisiva descrizione: «È principe altrettanto giusto che religioso. È di animo forte, temperato, liberale, magnifico, non inclinato alla collera, affabile, sommamente veridico. Ha grandissima cognizione delle cose del mondo, degli umori delle corti, degli affetti e passioni dei principi».
Aveva debuttato diciassettenne al fianco dello zio, Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Spagna, e, distinguendosi nella guerra contro i protestanti e in altre imprese militari contro i francesi, era stato nominato luogotenente generale in Fiandra e comandante supremo dell'esercito imperiale. Carlo V gli era molto affezionato tanto che, quando la morte del padre lo gettò in uno stato di prostrazione spingendolo a passare alcuni giorni in totale solitudine, volle confortarlo rassicurandolo che, da allora in poi, egli stesso avrebbe assolto nei suoi confronti gli obblighi di un padre verso il figlio. Il talento militare di Emanuele Filiberto rifulse nella battaglia combattuta nell'agosto 1557 presso la roccaforte di San Quintino allorché, a capo delle truppe imperiali, sconfisse l'esercito francese: fu una grande vittoria, che, due anni dopo, con la pace di Catéau-Cambresis, trovò il coronamento nella restituzione al duca di Savoia di gran parte dei possedimenti finiti da tempo in mano francese. Quando, finalmente, nel 1562, i francesi sgombrarono anche Torino il condottiero sabaudo poté mettersi all'opera per consolidare e costruire il nuovo Stato. Deposte le armi, Emanuele Filiberto, che aveva sposato nel frattempo Margherita di Valois diventando genero di Francesco I, si trasformò in un ottimo amministratore e nel riconosciuto organizzatore della struttura statuale. Fu, in un certo senso, lui era nato a Chambéry, il sovrano che, portando la capitale del ducato a Torino, trasformò i Savoia da dinastia francese a dinasta piemontese, prima, e italiana, poi. Per ricordarne la memoria il figlio Carlo Emanuele I incaricò un letterato milanese, Giovanni Tosi, all'epoca suo consigliere di Stato, di scriverne la biografia ufficiale, che fu pubblicata in latino, nel 1596, con il titolo De vita Emmanuelis Philiberti Allobrogum ducis et Subalpinorum principis libri duo ed ebbe una seconda edizione nel 1602. Più citata (e, spesso, di seconda mano) che non consultata o studiata, quest'opera rappresenta ancora oggi qualcosa di più di una fonte storiografica: una biografia articolata e completa che va ben oltre la sola dimensione agiografica e che, pur dando spazio all'aneddotica, offre un resoconto preciso e affidabile della vita e delle imprese di Emanuele Filiberto inquadrate nel contesto internazionale del tempo, utile per comprendere molti aspetti della vita di corte e delle complesse vicende europee del XVI secolo. Il lavoro di Tosi è pubblicato da Aragno e curata filologicamente, in maniera impeccabile, da Gabriella Olivero, in due tomi, con il titolo Della vita d'Emmanuel Filiberto, e comprende, oltre al testo latino originale, la traduzione, a fronte, fatta dallo stesso autore e trascritta, per la prima volta, da un manoscritto conservato presso la Biblioteca Reale di Torino e recante l'ex libris di Carlo Alberto.
La curatrice ha annotato l'opera con grande acribia, identificando tutti i personaggi citati, ed è riuscita a ricostruire la biografia dell'autore, Giovanni Tosi (1528-1601), del quale poco si sapeva, se non che fosse stato buon poeta sia in latino sia in italiano. Tosi - che quasi tutti i biografi moderni di Emanuele Filiberto, a cominciare da Maria José di Savoia, chiamano erroneamente Tonso - discendeva da una nobile famiglia milanese, ma era frutto di una relazione illegittima tanto che il cardinal Carlo Borromeo addusse proprio il «difetto del nascimento» come motivo per opporsi alla sua nomina a generale dell'Ordine degli Umiliati. Latinista e grecista, ma anche diplomatico e politico, Tosi si trovò coinvolto nella congiura che alcuni membri dell'Ordine imbastirono contro il cardinale nel 1567 ferendolo con un colpo d'archibugio: sembra, in realtà, che egli fosse del tutto estraneo alla congiura ordita dai suoi confratelli, ma cionondimeno il cardinal Borromeo lo fece relegare per due anni nella Certosa di Garegnano. Tornato in libertà, ebbe diversi incarichi e onorificenze presso varie corti, si dedicò agli studi e alla letteratura soprattutto dopo che, sciolto l'Ordine degli Umiliati da Pio V e distribuitene le ricchezze ad altri ordini, fu costretto ad abbandonare l'abito indossato. La nomina a consigliere di Stato di Carlo Emanuele I con uno stipendio annuo di 500 scudi "da pagarsi in Milano" concluse la sua carriera pubblica, gli consentì di dedicarsi alla stesura del De vita Emmanuelis Philiberti e alla sua traduzione in italiano.
L'immagine di Emanuele Filiberto, quale emerge dal testo tardo cinquecentesco del Tosi, è quella, naturalmente, confermata dalla storiografia, di un uomo, per certi aspetti, soprattutto per il suo spirito profondamente religioso, appartenente all'età medievale, ma per altri aspetti, in particolare per la curiosità intellettuale, già proiettato nel Rinascimento.

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