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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2014 alle ore 08:44.

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Giampaolo RugarliGiampaolo Rugarli

Un bambino precipitò da un settimo piano e andò a sfracellarsi al suolo. Accadde alcuni anni fa, pochi giorni prima delle festività natalizie. E accadde nello stabile dove io e mia moglie Irene abitavamo da non so quanto tempo: un condominio che aveva un nome ambizioso. “Le Colonne d'Ercole” lo avevano chiamato, ed era al passo con gli ultimi ritrovati della tecnica, ma esteriormente aveva l'aspetto di un castello antico: più muri che finestre, pietre a vista, una fortezza piuttosto che una casa.

«Hai sentito?» domandò mia moglie rincasando. Aveva l'aria un po' trafelata, ma lei è sempre così, con il suo visetto indecifrabile e la sua aria metà dolce e metà aspra.
«Sentito che cosa?» replicai con circospezione.
«Il botto. Un quarto d'ora fa. Un terribile botto».
«Sì, ma non vi ho badato. Ho pensato a un tamponamento».
«E non ti sei affacciato? Non hai visto?».
«Che diavolo ci sarebbe da vedere?».
«Buon Dio, adesso c'è la folla che lo nasconde. Ma il bambino della famiglia Bernasconi… il piccolo Eros… è caduto giù dalla terrazza sino alla strada. Suppongo sia morto…».
«È un bel salto. Immagino anch'io che sia morto. Impossibile che prendesse il volo come una farfalla».

A squarciare un'altra volta il silenzio irruppero le sirene di un'ambulanza e di un'auto della polizia. Trovai il coraggio di affacciarmi. Nereggiava un capannello che infittiva, mentre il brusio di sottofondo era spezzato da grida isteriche non so se di sgomento o di dolore. Dall'ambulanza scesero quattro infermieri che adagiarono e coprirono un qualche cosa su una lettiga. Caricarono la lettiga a bordo della loro vettura bianca e ripartirono di carriera. I poliziotti esortavano la gente a circolare.

Conoscevo il bambino che era andato a stamparsi sull'asfalto o almeno sapevo chi era. Era una creatura di tre o quattro anni, non di più, ed era l'unico figlio dei coniugi Bernasconi, i nostro coinquilini dell'ultimo piano. Converrà che io descriva la scena. Abitavamo, io ed Irene, a T..., una cittadina o forse un paese di mare al di fuori degli itinerari turistici. Il paese non è lontano da Sapri e da Carlo Pisacane: questa forse è la sua più grande attrattiva. Da noi il progresso è arrivato a piccole dosi: c'è molta televisione, ma il treno è ancora a binario unico. Siamo quattro o cinquemila anime, non di più, e le case sono piccole e basse. Un piano fuori terra al massimo. C'è la Chiesa parrocchiale e l'Istituto Santa Genoveffa, cioè il ricovero per i vecchi e per gli invalidi. Finché venne commessa un'eresia, e fu innalzato un edificio di sette piani, una minima torre o un minimo grattacielo, il condominio “Le Colonne d'Ercole”. Voleva apparire simile a un maniero medioevale e suggeriva che il miglior modo di vivere è chiudersi.

Io e Irene abitavamo nel condominio per una questione di prestigio (in mancanza di figli da tirar su, ci preoccupavamo del prestigio). Proprio sopra di noi risiedeva il cognato di una insigne personalità che illuminava la scena politica. Peccato che, non lontano, si fosse insediato un Luna Park, presto diventato il principale richiamo del posto. Avrei voluto inoltrare un reclamo contro lo strepito della musica, delle voci e delle luci, ma a Irene piacevano le giostre, la sua natura era fanciullesca. Mi aveva confessato di aver conosciuto la felicità lasciandosi inabissare sull'ottovolante. Il vuoto, l'ignoto, il sogno. Così avevo accettato la sgradevole presenza del Luna Park.

Ancora più sgradevole era la presenza di alcune famiglie venute ad abitare nel castello. D'altra parte a me riusciva e riesce difficile convivere con la gente, forse perché mi piace galleggiare sulle mie letture, sui miei pensieri, sui miei ricordi. E mi piace la carta: se mai smettesse di esistere, sarebbe la fine del mondo che mi appartiene. Non avrei più difese contro i Comerzi (vivo in un cerchio, simbolico ma non del tutto). Sono un solitario e con la solitudine mi drogo: la solitudine è la mia estasi ma pure la mia distruzione. Non amavo Irene, non l'avevo mai amata e la mia mente era, è tutta occupata da Carlotta: ma questa è un'altra storia (come si suol dirsi), e ne parleremo più avanti.

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