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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2014 alle ore 08:14.

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Su Giovanni Gentile non è mai scesa una coltre di oblio. Recentissimo è l'ottimo libro di Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile (Adelphi); ed esce ora, per i tipi di Bompiani, un volume, L'attualismo (con introduzione di E. Severino), che ripropone alcune delle opere più impegnative del filosofo siciliano. Ma anche nei passati decenni sono apparsi saggi, alcuni di grande pregio, sulla figura e l'opera di Gentile (penso in primo luogo ai libri di A. Del Noce, G. Sasso, S. Romano).
Quali sono i motivi di questo continuo «ritorno» del filosofo siciliano? Un «ritorno» tanto più singolare, in quanto alcuni degli studiosi più influenti della Prima Repubblica hanno dato su Gentile un giudizio negativo, durissimo. Vale la pena di fare, a questo proposito, un paio di esempi.
Uno studioso di formazione neoidealistica come Eugenio Garin scriveva nel 1955 (nelle Cronache di filosofia italiana) che purtroppo il primato della gnoseologia aveva orientato l'attualismo verso una sorta di «teologia», e quindi non l'aveva fatto gravitare sulla storia, bensì gli aveva fatto risolvere la storia nella filosofia, «ossia nel quadro vuoto del pensiero pensante, che invece di essere concretissimo diviene astrattissimo». Norberto Bobbio, a sua volta, scriveva vent'anni dopo, nel 1975, che la filosofia di Gentile era stata una «cattiva filosofia», e che «una cultura in cui una filosofia come quella di Gentile poté essere portata alle stelle, era una cultura povera, chiusa in se stessa, fatua e al tempo stesso infatuata, senza porte né finestre verso l'esterno, provinciale, consacrata al culto della parola per la parola».
Dunque, secondo questi autorevolissimi studiosi, che dominavano il nostro campo culturale, i conti con Gentile erano definitivamente chiusi.
Senonché, accadde poi qualcosa di inquietante. Infatti si appurò che due eminenti esponenti della cultura italiana della prima metà del Novecento, Gramsci e Gobetti – che (si badi!) sia Garin sia Bobbio proponevano come punti di riferimento fondamentali per l'elaborazione di una «nuova cultura» – erano stati non solo influenzati, ma direi affascinati da Gentile. Nel 1918 Gramsci aveva scritto che Gentile era «il filosofo italiano che più in questi ultimi anni abbia prodotto nel campo del pensiero»; che il suo sistema filosofico era lo sviluppo ultimo dell'idealismo tedesco, culminato in Hegel, maestro di Marx, ed era «la negazione di ogni trascendentalismo, l'identificazione della filosofia con la storia, con l'atto del pensiero in cui si uniscono il vero e il fatto in una progressione dialettica mai definitiva e perfetta». È difficile immaginare, credo, un elogio più convinto e, starei per dire, più commosso di questo.
Quanto a Gobetti, nel 1921 aveva scritto (proprio sulla rivista di Gramsci, «L'ordine nuovo») che Gentile «ha veramente formata la nostra cultura filosofica». E aveva concluso con queste parole: «Quest'insegnamento di vitalità intensa, d'operosità necessaria, di serenità, d'umanità cosciente, scaturisce dall'opera di Giovanni Gentile. Egli ha fatto scendere (anzi, meglio, salire) la filosofia dalle astruserie professorali nell'immensa concretezza della vita». Perciò era giusto riconoscere in lui «un maestro di moralità», e tutta la nuova generazione doveva «ispirarsi al suo pensiero per rinnovarsi».
Quali le motivazioni di questa profonda adesione di Gramsci e di Gobetti a Gentile? In primo luogo, direi, l'interpretazione gentiliana di Marx. Per Gentile, Marx era, nonostante il suo materialismo e in contrasto con esso, un pensatore fondamentalmente dialettico. E ciò perché la chiave di volta della sua costruzione filosofica era il concetto di prassi, che Marx aveva ricavato dall'idealismo. Infatti egli, a differenza di Feuerbach, aveva concepito l'uomo come l'insieme dei rapporti sociali, e la natura come un prodotto del lavoro e dell'attività dell'uomo, della sua prassi.
Ma c'era un altro aspetto (al quale qui posso solo accennare) della concezione di Gentile che affascinava Gramsci e Gobetti: l'identità di filosofia e politica, non solo nel senso che la politica deve chiarirsi a se stessa, e a tal fine deve armarsi di pensiero con l'aiuto della filosofia; ma anche e soprattutto nel senso che non è «più possibile – diceva Gentile – una filosofia degna di questo nome, la quale non s'abbracci alle questioni politiche, e non ne rifletta in sé gli interessi, e non senta la necessità di risolverle nel suo proprio processo».
Una volta assodato che Gramsci e Gobetti (nei quali, ripeto, i Garin, i Bobbio e altri, individuavano i padri di una «nuova cultura») erano stati gentiliani, e che gli stessi Quaderni del carcere di Gramsci erano permeati di concetti gentiliani (gli intellettuali «organici», l'egemonia del «moderno Principe», eccetera), il discorso su Gentile doveva inevitabilmente riaprirsi, al di là delle facili e frettolose stroncature. (Del resto l' «attualismo» suscita interesse anche fuori d'Italia: è appena uscito in Inghilterra un ricco fascicolo della «Review of Collingwood and British Idealism Studies», interamente dedicato al filosofo siciliano).
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Giovanni Gentile, L'attualismo,
a cura di V. Lo Cicero e con introduzione di E. Severino, Bompiani, Milano,
pagg. 1.486, € 40,00

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