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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2014 alle ore 08:16.

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Le ha twittate due anni fa la story-board artist Emma Coats, e ancora girano vorticosamente in rete: sono «le 22 regole della narrazione della Pixar», lo studio cinematografico che ha prodotto Toy Story, Nemo, Cars e Gli Incredibili. Qualche estratto: «ammiri un personaggio quando si impegna al di là del proprio successo personale»; «c'era una volta... ogni giorno... ma un giorno... a causa di questo... e a causa di questo... finché finalmente»; «cosa sa fare il tuo personaggio? Cosa lo fa essere a suo agio? Buttagli contro il suo opposto, sfidalo. Come reagisce?»; «cosa c'è in ballo? Dacci una ragione per tifare per il tuo personaggio. Cosa succederà se non avrà successo?»; «le coincidenze che mettono nei guai i personaggi funzionano; le coincidenze che li tolgono dai guai barano».
Sembrano assunti già sentiti, tanto sono ovvi. Eppure, a meno che non abbiate studiato sceneggiatura o narratologia, difficilmente li avrete mai letti, né un insegnante ve li avrà mai dettati in classe.
Che una storia abbia una spina dorsale logica determinata da una reazione a catena, e che sia divisa in tre atti – un inizio, uno sviluppo e una fine –, ci suona naturale semplicemente perché è naturale: è il modo in cui ordiniamo i nostri pensieri. Lo conferma Giovanni Robbiano, sceneggiatore laureato alla Columbia che insegna in varie università europee: «Faccio leggere "le 22 regole" agli studenti all'inizio dei miei corsi, e ne escono sempre dei commenti interessanti. Ad esempio durante un seminario in Grecia mi sono sentito dire che la divisione in tre atti è la solita americanata. A questa persona ho spiegato che esisteva prima che suo nonno Aristotele ne scrivesse più di 2mila anni fa nella Poetica; con un certo anticipo quindi rispetto a quando Syd Field l'ha adattata per il cinema chiamandola "paradigma ideale". È vero che le strutture diverse esistono, ma sono una derivazione della convenzione. Pulp Fiction è fatto di tre atti destrutturati e ridistribuiti. Con la forma si può giocare quanto si vuole; mentre la natura della storia rimane sempre una catena di causa ed effetto».
Il principio dello story telling, che si tratti di cinema o romanzi, è universale ed elementare insomma. Proprio per questo viene da chiedersi per quale motivo non faccia parte del programma ministeriale per le scuole elementari: perché si mandano a memoria le tabelline per imparare a far di conto, ma non un decalogo della narrazione per imparare a scrivere un tema, un riassunto, a organizzare mentalmente quello che si è studiato e saperlo ripetere durante l'interrogazione senza perdersi in strade periferiche e poco rilevanti («Annibale: perché è venuto in Italia? Quando? Come gli è andata?»). Non c'è bisogno di scomodare grandi teorici come Propp, Todorov o Greimas, ma è doveroso dare una guida concreta agli scolari, visto che gli si chiede di scrivere e di esporre contenuti che filino con coerenza e razionalità, e visto che vengono valutati su una competenza che, così come stanno le cose, possono acquisire solo intuitivamente.
In attesa che arrivi la grida a imporre dall'alto lo studio della struttura narrativa, proponiamo un piccolo vademecum a uso dei lettori e dei loro figli.
Ogni storia...
1. Vive in tre fasi: un inizio, uno sviluppo, una conclusione.
2. Deve chiarire chi, dove, quando.
3. Racconta com'è fatto il mondo del protagonista, chi sono i suoi amici e alleati, chi ha contro.
4. Individua l'avvenimento che scardina l'equilibrio iniziale.
5. Fa reagire il protagonista e gli fa capire cosa lo muove dentro.
6. Elabora: cosa succede adesso?
7. Chiede: chi aiuta il protagonista? Chi lo intralcia? Chi è apertamente contro di lui?
8. Arriva a un punto di svolta definitivo.
9. Scopre come cambia la morale del protagonista, il suo arco drammatico, la sua crescita.
10. Mostra le conseguenze della vicenda nel mondo del protagonista: quali tracce ha lasciato?
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