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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2014 alle ore 07:27.

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Nessuno ha il diritto di vivere questa battaglia come uno spettatore», scriveva Christopher Hitchens in Regime Change: parlava di noi e dell'Iraq, della lotta al terrore, parlava di oggi e di domani. Lo spettatore guarda e si distrae, si riempie la bocca di buone parole sui diritti e sui massacri di massa, poi si convince che ogni popolo dovrà cavarsela da solo, la solidarietà internazionale è defunta, ripiomba nel cinismo dello status quo, spegne la tv e va a dormire.

E il leader politico, di fronte a questo spettatore, tende ad assecondarlo, a meno che non ci sia una minaccia imminente per se stesso, ma a volte nemmeno quella è sufficiente. Secondo Freedom House la libertà, a livello mondiale, sta diminuendo: fino al 2013 sono stati registrati otto anni di costante declino. Eppure la domanda di libertà non è affatto calata: le primavere arabe, sterminate dall'imperativo dello status quo, non erano altro che questo, una domanda di maggiore libertà, di diritti di scelta, di democrazia. Si dice che è colpa della crisi economica, che ci ha reso egoisti, e di un generale disinteresse rispetto ai popoli del mondo, che ci ha resi isolazionisti: è la Realpolitik, bellezza, e anche i liberal hanno imparato a indossarla con eleganza.

Nel 2015 vorrei che lo spettatore si tormentasse un po' di più, che fosse come l'agente della Cia Carrie Mathison di Homeland nell'ultima, splendida stagione, quando dice che la sconfitta è diventare come loro, come quelli che mettono un giubbotto esplosivo a un bambino e pensano che il piccolo sia contento perché si sta vendicando, e alla domanda «Per cosa, poi?» – domanda che l'opinione pubblica occidentale si pone da anni e alla quale i nostri leader non sanno più rispondere – mostrano un ghigno e lanciano un missile. Nel 2015 vorrei che lo spettatore fosse anche un po' come Elizabeth McCord, il segretario di Stato di Madam Secretary, che si definisce “realista” ma poi di fronte a una strage che rischia di diventare un genocidio nell'Africa occidentale convince il suo presidente a intervenire (una riedizione televisiva del “mai più” che il mondo occidentale disse dopo aver ignorato, colpevole, il Ruanda).

Nel 2015 vorrei che si parlasse di regime change senza che intorno si alzasse un coro per smentire, ridacchiare, ricordare che quello era il velo sotto cui si nascondevano le nudità dei guerrafondai. Nel 2015 vorrei che non si usassero più metafore sportive (copyright Obama) per descrivere il mondo né si scrivessero saggi sul capitalismo in affanno o sull'esperimento democratico andato male (l'Economist ha pubblicato un saggio molto citato: What's gone wrong with democracy. La mia risposta è: niente) ma si ritornasse agli ideali di base, che hanno a che fare con i popoli che soffrono perché piegati da dittature spietate. Intervenire per esigenze e ideali umanitari. C'è lo scempio siriano a dimostrarci che l'ambivalenza dello spettatore distratto – voler il dittatore via dal palazzo, a parole, ma non far nulla per cacciarlo, nei fatti – non salva nemmeno un essere umano.

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