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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2014 alle ore 07:27.

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Dicembre 2014. Sono passati appena 15 anni di millennio e abbiamo già grossi problemi con i due autori senza i quali non si può scrivere la storia della letteratura moderna. Philip Milton Roth (Newark, 1933), ritirato dalle scene. È famoso per non aver vinto il Nobel e per essere il più grande scrittore a bersagli. Prima di tutto si dice che odi le donne. Poi: gli ebrei, l'America, il sesso (il suo protagonista ricorrente è un pensatore nervoso, ipocondriaco e solo ovunque tranne che in camera da letto). Roth ha da poco fatto sapere che smette: alla sua età non può più permettersi il rancore che serve a produrre bestseller.

Per confermare la serietà dei propositi di riposo, ha precisato (al Financial Times): «Non leggo più narrativa. Meglio i libri di storia, le biografie» (la conosciamo: è la deriva del lettore di saggi. Quella che consiste nel sospirare agli amici con vanitosa rassegnazione: «Sono anni che non riesco a leggere un romanzo». Neanche gli Adelphi, assicurano). Ultimamente si concede persino interviste da veterano – nell'ultima, per il New York Times, spiega come si fa un libro: a) descrivi le brutture dell'esistere; b) alla pietà preferisci la precisione. È finito a sdottorare di letteratura, lui che dovrebbe produrla. E solo per dirci che l'Imputata Letteratura non ha le forze per la missione morale (ma in fondo quale scienza è riuscita a redimere gli umani? La politica? La legge? La filosofia? Neanche le religioni).

Insomma traccheggia, come tutti gli scrittori, per non scrivere. Perché sa che questa fase da vecchia gloria non può durare. Il 2015 dev'essere l'anno del romanzo decisivo, quello in cui confessa (in bella prosa) chi era lei e quanto l'ha amata: pensava non ce ne fossimo accorti, che il suo non era odio professionale-generico per le donne, ma distillati di cattiveria troppo esatti per non avere una destinataria precisa? I lettori hanno imparato – non è vero che ogni scrittore racconta una sola storia, semmai è vero il contrario: uno scrittore ha una sola storia e ci gira intorno anni senza raccontarla mai. Jonathan Franzen (W. Springs, 1959). Nuovo libro (Purity) a settembre. Carriera scintillante: parlava d'amore come Roth parlava di sesso.

Di recente, siccome ogni uomo ha bisogno di un'ossessione, è tutto dedicato a una battaglia molto dura e molto solitaria contro il wi-fi mondiale. E non c'è niente di male ad attraversare un periodo luddista – solo che lui insiste. Ma c'è da capirlo: se a 50 anni finisci sulla copertina di Time perché hai già scritto – pure un paio di volte – il Grande Romanzo Americano, che guerre ti restano? Quelle impossibili da vincere: la scelta era tra Dio e internet. Non trovando alleati, ha riletto capziosamente Karl Kraus tirandolo dentro come compagno di crociata e ha preso a pubblicare invettive periodiche, una magnificamente titolata What's wrong with the modern world. Abbiamo letto, ma per il 2015 serve un'altra storia d'amore. Sì, l'ennesima. E sì, a un certo punto addirittura uno scrittore può averne abbastanza, di cuori infranti. È tutto giusto, ma il pubblico siamo noi.

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