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Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2014 alle ore 08:16.

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Non ha tutti i torti Giancarlo Cauteruccio quando lamenta una certa marginalità in cui il suo lavoro viene tenuto da larga parte della scena italiana di oggi. Ferma restando la difficoltà di sondare i misteri del mercato, il regista-architetto Cauteruccio è da trent'anni ai vertici del teatro di ricerca. Oltre a fare da punto di riferimento per tanti giovani gruppi, il Teatro Studio di Scandicci, da lui diretto ha dato vita a una quantità di proposte artistiche di livello più o meno alto, ma nate comunque da una reale necessità culturale, mai occasionali o gratuite. Sorprende, in effetti, che queste produzioni non abbiano avuto una circuitazione adeguata.
Chissà se avrà miglior sorte questo appassionato omaggio a Dino Campana, o se le prospettive dello spettacolo resteranno limitate al breve ciclo di repliche effettuate nelle scorse sere nella sede di Scandicci, nel cui cimitero, fra l'altro, è sepolto il poeta. Se andasse così, sarebbe un vero peccato, perché Canti orfici/Visioni – questo il titolo, che significativamente pone in luce la costruzione onirica del progetto – è il notevole punto d'arrivo di un'articolata serie di iniziative che il Teatro Studio ha promosso nel centenario della pubblicazione del libro, e che ha compreso la presentazione di un film, letture, conferenze, laboratori.
Cauteruccio, che di Campana è un cultore, già vent'anni fa lo aveva messo al centro di uno spettacolo che partiva da un testo poetico-drammatico sulla sua figura, Un poeta in fuga di Roberto Carifi.
Se allora aveva dato particolare risalto alla vicenda umana di Campana, ora è andato dritto al cuore della sua opera. La drammaturgia, messa a punto con Andrea Cortellessa, enuclea dai Canti brani che evocano paesaggi e ambienti naturali, acque, alberi, boschi, osservati con un trasporto quasi metafisico, mescolati a improvvisi soprassalti erotici legati a trasognate apparizioni femminili, ninfe, zingare, prostitute, e poi Genova, caleidoscopio di suggestioni, e la Pampa non si sa se inventata o visitata davvero.
Di Campana Cauteruccio vuole mettere in evidenza specialmente il rapporto col modernismo, e in primo luogo con le influenze di una certa pittura futurista. Egli ha quindi operato sul concetto di una dinamica simultaneità di percezioni sensoriali, su un vorticoso sovrapporsi e moltiplicarsi della parola, dell'immagine, del suono. Nella sua messinscena la fibrillante proliferazione verbale dei Canti si riverbera in un frenetico "montaggio" di frammenti e di impressioni, in una turbinosa interazione con lo spazio, col corpo dell'attore, coi raffinati apparati tecnologici.
La scena, bellissima, di Paolo Calafiore è composta di enormi ritagli di carta slabbrati, quasi i fogli stizzosamente strappati da un libro o da un quaderno, che pendono dal soffitto e si allungano al suolo. All'inizio sono bianchi e freddi come stalattiti, poi su di essi vengono proiettati coloratissimi scorci fotografici di rupi, monti, cascate, e pagine scritte e riproduzioni di quadri. In questa sorta di grotta interiore si aggira un unico personaggio vestito di bianco, affidato allo straordinario Michele Di Mauro, mentre sette giovani attori e attrici incarnano le tenui presenze fantastiche che affiorano fra le righe del poema.
Ma queste aggiunte non sono proprio indispensabili. Basterebbe Di Mauro, un attore dal talento travolgente, che chissà perché non ha ancora avuto tutti i riconoscimenti che avrebbe meritato. Lui in questa materia ci si butta dentro con tutto se stesso, fisicamente, tecnicamente, mentalmente. Sfoggia continue variazioni ritmiche, accelerazioni a perdifiato, repentine pause introspettive. Passa da uno stupore euforico a un'estasi quasi dolorosa, per poi spiazzare con imprevedibili punte rabbiose, o col canto sfrontato in cui sfocia la fulminante Genova, ormai un pezzo di teatro come un'aria d'opera o il monologo di Amleto.
Di Mauro non si limita a declamare, dialoga con echi di acque e di vento, con le insinuanti sonorità elettroniche di Gianni Maroccolo, col sofisticato impianto di amplificazione che offre mille riflessi alla sua capacità di dare spessore a ogni singola sillaba. È improprio, ma inevitabile il confronto con Carmelo Bene, che su Campana aveva tenuto un memorabile "concerto". Lui è meno musicale di Carmelo, la sua dizione è più acre, più increspata, e anche più "interpretativa": non dice solo i versi, ci mette dei lampi allucinati, delle ossessive iterazioni che Bene risolveva in pura phonè, e qui diventano un bruciante sguardo sul «panorama scheletrico del mondo». Non dico che sia meglio, ma certo non sfigura.
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Canti orfici/Visioni, progetto e regia di Giancarlo Cauteruccio; visto al Teatro Studio di Scandicci

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