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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2014 alle ore 15:27.

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Il viaggio cosmico verso l'ignoto, realizzato con l'ausilio di macchinari e mezzi tecnologici, è un genere letterario antico. Non è nato con Interstellar. Tra i primi esempi troviamo la Storia vera di Luciano di Samosata, secondo secolo dopo Cristo. Il protagonista è lo stesso Luciano, alle prese con un viaggio oltre le colonne d'Ercole a bordo di una navicella che lo porterà su isole mai raggiunte prime e su pianeti abitati. Oppure il Romanzo di Alessandro, di autori anonimi del terzo secolo; narrazione delle gesta di Alessandro Magno, dalle esplorazioni dei fondali marini fino a un ascensione al cielo che lo porta a un'altezza tale da contemplare la struttura dell'universo: un grande serpente arrotolato.

Nel suo saggio Il mulino di Amleto lo storico e mitologo della scienza Giorgio de Santillana descriveva così le caratteristiche che ritroviamo in questo genere di miti: «Il cosmo era un unico vasto sistema di ingranaggi che contenevano altri ingranaggi, enormemente intrigato nei suoi collegamenti e paragonabile a un orologio dai molti quadranti. Le sue funzioni apparivano e scomparivano dappertutto nel sistema, come strani cucù d'orologio, e attorno ad esse venivano intrecciati racconti meravigliosi per descriverne il comportamento; ma, proprio come avviene con le macchine, non è possibile comprendere la singola parte fino a quando non si è compreso il modo in cui tutte le parti sono collegate fra loro nel sistema. È esattamente quel che succede nel grandioso apparato dei miti. Tutti i miti presentavano racconti, alcuni misteriosi, incoerenti, bizzarri, altri epici e tragici».

Una descrizione appropriata sia per i classici del genere sia per il blockbuster dell'anno. Racconti meravigliosi, tempo a più dimensioni, teorie del tutto. Christopher Nolan usa gli stessi ingredienti di Luciano e Alessandro.

Certo, qualcosa è cambiato. I protagonisti, per esempio. Nelle opere della tarda antichità gli eroi erano soldati o avventurieri. Oggi invece chi si mette alla guida dei viaggi verso l'ignoto non può che essere un fisico. Anche se poi a bordo dell'astronave ci sarà un équipe che comprende anche ingegneri e biologi, a volere la missione di Interstellar è il professor Brand, personaggio ispirato al fisico teorico del Caltech Kip Thorne. Non è un caso. L'idea che alla guida dei viaggi in territori non conosciuti oggi non possano che esserci dei fisici viene confermata anche da due libri recenti.

Nelle ultime pagine delle sue Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi), Carlo Rovelli, scienziato italiano membro dell'Académie Internationale De Philosophie Des Sciences, scrive: «La nostra conoscenza del mondo continua a crescere. Ci sono frontiere, dove stiamo imparando, e brucia il nostro desiderio di sapere. Sono nella profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nel fato dei buchi neri, e nel funzionamento del nostro stesso pensiero. Qui sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l'oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato».

E allo stesso modo il fisico americano Marcelo Gleiser, nel suo The Island of Knowledge: The Limits of Science and the Search for Meaning (Basic Books), parte chiedendosi: «Quanto possiamo conoscere il mondo? Possiamo sapere tutto? O ci sono dei limiti fondamentali a quanto la scienza può spiegare? Se ci sono limiti, fino a che punto possiamo comprendere la natura della realtà fisica?». Entrambi potrebbero sottoscrivere le prime parole del racconto di Luciano: «Motivo e scopo del mio viaggio, la curiosità intellettuale, il desiderio di novità, la voglia di scoprire dove finisca l'Oceano».

Per descrivere la sua idea di conoscenza, Gleiser si serve di un immaginario che ci riporta agli stessi miti: «Considerate dunque che la somma delle conoscenze accumulate costituisca un isola, la chiamo “isola della conoscenza”». Un vasto oceano la circonda: «L'Oceano inesplorato dell'ignoto». L'isola cresce con l'aumentare delle nostre scoperte sul mondo e su noi stessi. «Questo sviluppo ha una conseguenza sorprendente ma essenziale – continua Gleiser – Potremmo aspettarci ingenuamente che più conoscenze abbiamo più ci avviciniamo a una specie di destinazione finale, quello che qualcuno chiama la Teoria del Tutto e altri la natura definitiva della realtà». Non è così. «Con l'ingrandirsi dell'isola della conoscenza, crescono anche le rive dell'ignoranza, conoscere di più non ci porta a un punto più vicino a un traguardo finale, ci porta a ulteriori domande e misteri. Più sappiamo, più siamo esposti alla nostra ignoranza, e più sappiamo di dover fare nuove domande».

Gleiser ha anche conosciuto di persona l'ispiratore di Interstellar, Kip Thorne «È stato meraviglioso conoscerlo e imparare da lui», racconta. Il libro di Gleiser è uscito qualche mese prima del film di Nolan, e forse è solo una coincidenza se nell'ultima pagina il fisico cita gli stessi versi di Dylan Thomas ripetuti dal professor Brand / Kip Thorne: «Non andartene docile in quella buona notte. Infuria, infuria, contro il morire della luce…».
Per entrambi è un inno contro la rassegnazione, un invito a nuove rotte attraverso l'oceano dell'ignoto. Anche per questo alla fine di Interstellar l'astronauta riparte per una nuova esplorazione. Un'altra sostanziale differenza rispetto ai suoi predecessori letterari. Neanche Alessandro Magno avrebbe osato tanto. Alle fine del suo Romanzo, al ritorno dal viaggio celeste, si congedava così: «Per volere della superiore provvidenza, scesi a terra.

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