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Il caso Italia e le stringhe tedesche di Europa e Bce

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LETTERA DI NATALE AI LETTORI

Il caso Italia e le stringhe tedesche di Europa e Bce

Dall'inizio della crisi ad oggi l'Italia ha perso un quarto della produzione industriale, nove punti di prodotto interno lordo, quindici nelle sue regioni meridionali, l'Italia che tutti abbiamo conosciuto non esiste più, si è dissolta, potremmo usare un'espressione forte e dire che è morta. Prima prendiamo coscienza di vivere in un'altra Italia, in un Paese più piccolo e sempre più diseguale, nato povero e diventato ricco, ma che ha continuato a vivere da ricco anche quando non lo era più, meglio è.

Sarà più facile rendersi conto delle colpe nostre, vengono da lontano, sono gravi (hanno la sintesi algebrica in un debito pubblico di 2.157 miliardi) e fanno fatica a sparire dalla scena di questi giorni dove monta la tensione sociale e riappaiono rigurgiti terroristici, i vizi della politica vecchia e nuova si intrecciano con quelli del malaffare e della criminalità e finiscono con intaccare duramente il capitale più importante di un Paese che è la sua reputazione.
Sarà più facile riconoscere le colpe, altrettanto gravi, che appartengono alla parte malata della finanza anglosassone e alle sue appendici tedesche ugualmente malate (non erano aiuti di Stato le centinaia e centinaia di miliardi che il Tesoro americano e il bilancio pubblico tedesco hanno sborsato per salvare le loro banche piene di buchi?) e a una cattiva regolamentazione dei mercati finanziari globali che sopravvive a tutto e tutti (dove è la nuova Bretton Woods?). Per non parlare di quel nazionalismo germanico ricorrente ammantato, di volta in volta, dietro questa o quella regola europea, che impedisce nei fatti di realizzare gli Stati Uniti d'Europa e di attuare l'idea solidaristica e ambiziosa che apparteneva ai padri fondatori e, senza la quale, si condanna alla marginalità la più grande area di consumo al mondo. Possibile che la politica e la finanza tedesche (l'industria ne è consapevole da tempo) non si rendano conto che l'America ha ripreso a correre perché ha attuato azioni economiche e monetarie fortemente espansive e che questa è la strada perché anche la domanda interna europea si risollevi?

I focolai italiani di fiducia e l'Europa politica bloccata
La piccola-grande Italia uscita dalle due crisi, interna e internazionale, si ritrova in questo passaggio di Natale e di fine anno a fare i conti con i suoi ritardi e i suoi difetti che incidono pesantemente sul tessuto civile, riducono le opportunità di lavoro, sbarrano la strada ai focolai di fiducia che pure ci sono, e con un'Europa politica bloccata (dove sono gli eurobond e gli investimenti veri, saranno o no fuori dal patto? Quanto varrà il piano Juncker?) e quella monetaria (Bce) alle prese con uno snodo delicato (arriva e come il bazooka di Draghi?). Per la prima volta, questa Italia tormentata di oggi si presenta con una situazione dell'economia reale più pesante di quella del novembre del 2011 stretta nella tenaglia di mercati pronti alla prima occasione a riaccendere i riflettori sui titoli sovrani italiani come fu in quella stagione (per i deboli di memoria: nessuno al mondo comprava un titolo Italia) e le ennesime stringhe che i condizionamenti tedeschi e del Nord Europa potrebbero di fatto imporre alla Bce nel varo del Quantitative Easing (QE), il nuovo bazooka, paventando il rischio di trasformare un'azione di politica monetaria in un'altra camicia di forza per un Paese stremato da anni di miope austerità .

La doppia partita di Renzi e Draghi
Sarà il governo di Renzi all'altezza di una sfida che fa tremare vene e polsi, ne ha la forza, il capitale umano e la statura internazionale? Ce la farà Mario Draghi a mettere in campo quella che è da sempre la migliore delle sue qualità e, cioè, la capacità politica di fare al momento giusto la mossa giusta? Quanto peseranno i mille populismi che fanno credere agli italiani (ahimè con successo) che i loro risparmi e i loro posti di lavoro sarebbero più al sicuro fuori dall'euro omettendo la banale considerazione che il debito pubblico italiano attaccato a quello europeo fa paura e incute rispetto, fuori sarebbe solo nostro e quindi nessuno si preoccuperebbe di risparmiarci la stessa sorte di povertà che è toccata agli argentini con il loro default? O ancora, molto banalmente, che aziende come Enel, Telecom, impegnate nella realizzazione di un importante piano industriale, e molte altre altrettanto indebitate, uscendo dall'euro, salterebbero dalla sera alla mattina perché non sarebbero più in grado di rimborsare i debiti, che resterebbero in euro, ai detentori delle loro obbligazioni sottoposte al diritto inglese? Questi sono i fatti, richiedono un'analisi ragionata e articolata che vada in profondità e, per questo motivo, abbiamo deciso di abusare della vostra pazienza e di scrivere questa specie di lettera che racconta l'Italia in Italia e l'Italia in Europa, con fatti e angoli di lettura meno usuali, allo scopo di far capire come stanno realmente le cose e di rendere più chiari e riconoscibili difetti e qualità della nostra classe politica e di quella a tratti “feticista” che guida oggi l'Unione europea.
L'Italia di oggi, al netto della propaganda gufi compresi, vive una situazione economica di stagnazione, le prospettive di ripresa sono legate a quanta gente si riuscirà a far lavorare, all'aumento del reddito disponibile e al ritorno degli investimenti pubblici (scarseggiano, 8 miliardi nel triennio 2015-2017) e di quelli delle imprese private le quali per tornare a investire chiedono di avere certezza nell'attuazione delle riforme a partire da quelle fiscale e burocratica. Chiariamoci subito: ci sono imprese che hanno saccheggiato lo Stato e hanno stretto patti perversi con la criminalità organizzata, sono il male assoluto, e il mondo delle imprese deve avere la forza di recitare il suo mea culpa e di tagliare alla radice questo tumore; è altrettanto vero, però, che c'è un tessuto diffuso di medie aziende manifatturiere italiane (vanno dalla meccanica di precisione e strumentale, chimica e informatica di specialità, al mobile-arredo, sistema moda e agro-alimentare) che ancora oggi fa 400 miliardi di esportazioni e 100 di saldo positivo che è, peraltro, l'unica voce all'attivo in un Paese che vive di spesa pubblica e debito. Se si voleva che la parte sana dell'economia italiana riprendesse a correre, investire e dare lavoro, non era proprio il caso di impegnare 9,5 miliardi in un bonus da 80 euro che non ha avuto effetti sui consumi e sottratto una dote preziosa per potere annunciare al mondo che lo shock fiscale italiano era finalmente cominciato in modo trasparente e lineare. Non riconoscere, tuttavia, che i 5,7 miliardi a regime di taglio della componente del lavoro dell'Irap e la detassazione per i nuovi assunti sono cosa buona e vanno nella direzione giusta sarebbe sbagliato. Il punto è che in recessione e deflazione si assume molto poco e resta il rammarico che l'effetto cumulato di questi nuovi interventi con l'utilizzo della dote dei 9,5 miliardi degli 80 euro avrebbe funzionato da moltiplicatore in termini di leva psicologica e di sostanza per gli imprenditori italiani e gli investitori esteri regalando un carattere davvero espansivo alla prima manovra non recessiva dopo tanto tempo. Peccato.

Il macigno di distorsioni da abbattere e il morbo italiano della corruzione
Sul secondo, decisivo fronte, si è cominciato a fare qualcosa, la semplificazione della delega fiscale è legge, mancano gli altri decreti attuativi, la delega di riforma della Pa che ha la polpa di tutto è approdata in Parlamento, si procede tuttavia a rilento e, a oggi, per aprire e gestire un'impresa in Italia bisogna ancora fare così tante cose, riempire così tanti fogli di carta, si incrociano discipline amministrative, fiscali, ambientali e sindacali, che alla fine del processo si è più maturi per fare il consulente d'impresa che l'imprenditore. Le norme ambientali e sanitarie variano da regione a regione, da Asl a Asl, se non si riesce ad abbattere un tale macigno di distorsioni, in questo Paese, creare lavoro e conservarlo diventa difficile. Questa è la realtà, il resto sono chiacchiere. Legalità e corruzione: Mose, Expo, Mafia Capitale, per molto meno un Paese consuma il suo capitale reputazionale, e noi esitiamo a prendere per decreto (non disegno di legge) le decisioni giuste. Non sono sempre lineari i calcoli che si fanno in termini di pil mancato per la corruzione, di certo la reputazione passa per una giustizia prevedibile, con pene certe, agenti provocatori, prescrizioni non di comodo, e un unicum di riforme esecutive che aggiusta, corregge, non ricomincia sempre daccapo finendo, di fatto, con il favorire i ladri. Si è fatta l'autorità per la corruzione e Cantone sta ben operando, merito di questo governo, ma per debellare il morbo che appartiene alla cattiva politica e a un intreccio perverso e diffuso di cattiva burocrazia e di criminalità organizzata che viene prima e dopo la politica, si deve far capire alla voce fatti (lo sdegno non basta) che questa volta si agisce sul serio. Perché, ad esempio, non si sono tagliate, come chiedeva Cottarelli, le municipalizzate? Che cosa si aspetta a disboscare le giungle burocratiche di Regioni e Comuni? Serve davvero il compromesso raggiunto sulle Province? Che fine ha fatto la spending review?

Il passo in avanti del Jobs Act e i pasticci da evitare
Per rimanere alla congiuntura, i consumi sono ancora in caduta, gli acquisti di Natale si fanno largo a fatica tra Imu, Tasi, saldi delle imposte di fine anno, qualche segnale positivo viene dall'immatricolazione delle auto ma il reddito disponibile resta scarso, è vero che persiste una dote di risparmio delle famiglie italiane ancora apprezzabile (meno di prima comunque) ma perché si mobiliti e entri nei consumi occorre la fiducia e quella non la danno piccoli sostegni al reddito mensile comunque erosi da tasse odiose ma la ripresa dell'occupazione, il ritorno del lavoro. Per creare lavoro sono fondamentali gli investimenti che, a loro volta, hanno bisogno di shock fiscale, meno burocrazia, serietà delle imprese e modernizzazione del sindacato. Siamo sempre lì. In questo quadro, l'intervento sul mercato del lavoro che va sotto il nome di jobs act è di certo un passo in avanti a patto che i decreti attuativi evitino pasticci. Soprattutto, a questo provvedimento che resta importante per la flessibilità in uscita e per la scelta delle tutele crescenti in entrata che spezza la catena del precariato a vita, è mancato il coraggio di abbattere il muro più alto e di fare in modo che le nuove regole valessero anche per i contratti in essere. Il cambiamento si nutre di scelte coraggiose, ma si può cominciare anche dal muro più piccolo soprattutto se nessuno ci era riuscito prima.

L'eresia di Di Vittorio che il Paese invoca per vincere la sfida dei nuovi lavori
Il coraggio eretico che ebbe Di Vittorio alla guida della Cgil negli anni della ricostruzione è necessario che lo abbiano oggi, in questo Paese, tutti i sindacati per affrontare e risolvere i problemi strutturali che si aggiungono a quelli congiunturali. Ci sono o non ci sono per affrontare la sfida dei nuovi lavori e capire come saranno retribuiti? Per capire che molti dei lavori di oggi presto non esisteranno più, ma serviranno, ad esempio, nuovi occupati nella logistica al servizio degli acquisti su internet che riguarderanno anche i prodotti alimentari. Le imprese resistano alla tentazione di sostituire tutta la manodopera in uscita con chi costa meno, bisogna investire sui giovani e sulla conoscenza, di questo hanno bisogno le multinazionali tascabili italiane, guai se rinunciano a investire sulla ricerca e sui brevetti e a scommettere sulle migliori risorse umane. Anche i medici rischiano con i nuovi protocolli e la standardizzazione dei prodotti, ma di un medico e di un insegnante specializzati e competenti ci sarà sempre bisogno e qui, su scuola e università dove l'impegno è dichiarato ma va riscontrato sul campo, si misura la volontà di fare riforme che cambiano davvero le cose.

Il cammino compiuto per garantire la normalità, gli errori da correggere
Dove si è fatta più strada è sul tema istituzionale, a partire dalla riforma della legge elettorale e del Senato, che è assolutamente fondamentale ma nell'emergenza italiana viene un attimo dopo le riforme fiscali, della pubblica amministrazione e della corruzione decisive per l'economia. Garantire la governabilità è un passo obbligato per un Paese che vuole cambiare e guadagnare la normalità: capire la sera, dopo lo scrutinio dei seggi, chi ha vinto e chi ci governerà. Attenzione, però, a consegnare il nuovo Senato totalmente nelle mani di quella classe politica regionale che si vuole giustamente ridimensionare. Attenzione ai tanti piccoli snodi, collegi e preferenze, dove si custodisce la democrazia e lo spirito lungo dei nostri Padri Costituenti. Sono valori importanti nel Paese dei mille conflitti di interesse. Potrà sembrare maldestro scendere dall'empireo della Costituzione e della democrazia effettiva ai problemi di amministrazione delle città e dei nostri mille borghi, eppure mi chiedo: che cosa impedisce di cominciare ad affrontare seriamente il problema della manutenzione del territorio e della programmazione dei servizi evitando lo sconcio di bucare in eterno una strada per attaccare, di volta in volta, la rete del gas, della luce, della banda larga, e così via? Quanto è lunga la strada italiana del cambiamento, ma è un sentiero obbligato, e qui il nazionalismo tedesco non c'entra niente, dipende solo da noi.
C'è una burocrazia europea che rischia di far rimpiangere quella italiana, pervasa da un senso quasi religioso per cui tutto è aiuto di Stato. Se si continua a chiedere, ad esempio, aumenti di capitale alle banche italiane c'è un rischio concreto di prociclicità perché si tolgono risorse da destinare al credito alle imprese e ci si lamenta che gli investimenti non ripartono dopo anni in cui sono calati del 25/30 per cento. Il quadro reale italiano, per come dovrebbe essere letto e correttamente interpretato a Bruxelles, è quello di un Paese dove la spesa, al netto degli interessi sul debito, è cresciuta nei primi sette-otto anni del nuovo millennio ed è discesa negli ultimi quattro-cinque sempre in rapporto al pil. Il nostro disavanzo è stato molto virtuoso, la crescita non è stata virtuosa, il rapporto debito/pil continua a salire perché l'austerità taglia le gambe alla crescita, in un circolo vizioso che si ripete da troppo tempo, e i mercati si chiedono se possiamo continuare a pagare nel lungo termine i tassi di interesse sul debito. Perché l'Europa non si chiede che senso ha un disavanzo virtuoso che ammazza l'economia di un Paese e la smette con quel “feticismo religioso” che li spinge a ritenere che ogni allentamento delle regole per gli italiani si tradurrebbe solo nell'ennesima occasione per buttare via altri soldi?

Il conto che paga ingiustamente l'economia reale italiana
La verità, e bisogna cominciare a dirselo con sempre maggiore chiarezza, è che la politica europea nella versione di Weidmann o di Schäuble è piuttosto nazionalista e nasconde il suo nazionalismo dietro la religione di regole affette da strabismo. Non erano aiuti di Stato, forse, i 247miliardi che i tedeschi hanno usato per coprire i buchi delle loro banche e perché l'Europa decise allora di non farli valere come tali per tutti? Come si giustifica l'altolà tedesco contro il “Made in” dopo gli impegni presi e quanto inadeguata è apparsa in questa partita la politica italiana? Tutto ciò è andato, è andato e non se ne parla, tutto nascosto, dimenticato, restano solo gli italiani che non sanno rispettare i vincoli di bilancio e non sanno garantire una trasparenza e una correttezza di comportamenti non censurabili sul piano etico e economico. All'Italia si rimprovera un ciclo elettorale continuo (è vero) e non si fidano, anche perché la nostra risposta è quella di cercare il colpevole (una volta le banche, un'altra l'euro, poi la burocrazia) per cui anche chi persegue un disegno nobile dentro l'Europa deve misurarsi con le posizioni estremistiche in casa e con i limiti di un percorso europeo che è ancora ostinatamente una moneta senza Stato. Non ci sono effettivi passi avanti nella condivisione dei bilanci pubblici o della difesa, si procede lentamente e con grande debolezza perfino sulla strada di un meccanismo unico, con fondi europei, per la risoluzione delle crisi bancarie.

Abbiamo fatto molto più dei francesi e non ci viene riconosciuto
In questo contesto, può addirittura accadere che gli stress test penalizzino anticipatamente le banche italiane non solo per il pil e la mancata crescita, ma addirittura per un evento ipotetico sulla base di simulazioni che accreditano un fatto che non si è realizzato. Immaginiamo che il tasso dei Btp ritorni ai livelli del novembre del 2011 (sette e qualcosa per il decennale) e imponiamo di aumentare subito prudenzialmente il capitale finendo con il sottrarre credito al finanziamento delle imprese: si ipotizzano tassi al 5,9% mentre nel mondo reale siamo ancora sotto il due e si fa pagare il conto all'economia reale italiana. La verità è che il modo di porsi dei tedeschi condiziona, spagnoli e olandesi hanno avuto il loro aiuto e hanno fatto bene, ora ci siamo solo noi e abbiamo una brutta presentazione, perché ci vedono come un popolo inaffidabile, corrotto, che ha abusato di una concessione da parte di chi ha fatto politica monetaria e ha sprecato il regalo iniziale dell'euro: l'azzeramento dello spread consentì di accordare ai cittadini italiani mutui favorevolissimi e abbassò drasticamente gli interessi sul nostro debito. È vero, certo, che c'è troppa corruzione, in Italia, per questo è importante agire subito e bene, ma è anche vero che di sacrifici ne abbiamo fatti come pochi in Europa. Siamo passati di patrimoniale in patrimoniale sulla casa e ora anche sui terreni, abbiamo un total tax rate su imprese e lavoratori che non teme confronti nonostante i tagli recenti, abbiamo adottato il regime contributivo per le pensioni, un cammino di riforme ancorché incompleto e insufficiente ha preso il via, di certo abbiamo fatto molto di più dei francesi.

Le stringhe da rimuovere per fare un “ QE” che serva a tutta l'Europa
Soprattutto è vero che questo impianto squilibrato di Europa che non affianca lo sviluppo al rigore rischia di condannare i Paesi periferici a passare dal circolo vizioso a un tunnel senza uscite. Questo atteggiamento prevalentemente tedesco, ma purtroppo non più solo tedesco, guadagna terreno anche nella Banca centrale europea e la domanda è: il Quantitative Easing avverrà con stringhe o senza stringhe? Diciamo sì, ma purché non si consenta di comprare liberamente i titoli di Stato più rischiosi di altri e questo riguarda i titoli sovrani di Paesi i cui debiti tendono a aumentare con la bassa crescita e la bassa inflazione (come noi) oppure si può anche fare ma riducendo ulteriormente la possibilità di essere flessibili in quegli stessi Paesi. Questo vale sempre e soprattutto per l'Italia che sconta, probabilmente a torto, una persistente bassa fiducia nella capacità riformatrice della sua classe politica, si teme l'azzardo morale di una politica che sfrutterebbe la maggiore liquidità senza fare quello che deve. In questo scenario, i nostri tassi tornerebbero a salire e il nostro debito avrebbe un prezzo più alto. Si potrebbe arrivare al paradosso di ritrovarsi a fare i conti con il bazooka di un “Q E” che ex ante vale per tutti ma non vale per noi e, di fatto, potrebbe non valere granché in assoluto. A quel punto per noi anche il vantaggio della discesa dei prezzi del petrolio verrà annullato perché nel gioco tra debito e deflazione aumenta il tasso reale da pagare. È bene chiarire che le stringhe sancirebbero la fine della politica monetaria unica e fornirebbero l'implicita ammissione che ci si prepara alla fine dell'euro. Due elementi che dovrebbero fortemete sconsigliare tale prospettiva.

La doppia partita europea che l'Italia deve vincere
Questa tragedia va scongiurata assolutamente. Come? Primo, bisogna capire se Renzi avrà o no la capacità di essere convincente e avrà la forza di superare il test delle procedure di disavanzo eccessivo battendo sul tasto che un conto è il flusso (il disavanzo) e lì siamo nettamente i migliori perché abbiamo un surplus primario al netto degli interessi tra entrate e uscite e un conto è lo stock (il debito) dove paghiamo la mancata crescita e non si possono fare miracoli senza svendere. La strada da percorrere è davvero stretta e bisognerà verificare quanto il nostro Presidente del Consiglio potrà far valere il peso politico del successo alle europee e, soprattutto, quanto e se riuscirà a fare fronte comune con i francesi (al momento c'è poco da crederci) o con altri perché altrimenti tra flusso e stock il problema sarà sempre (sbagliando) il secondo e l'Italia a causa del suo debito ne uscirebbe con le ossa rotte. Non aiuta alzare la voce, ma fare le cose in Italia e agire politicamente fuori, far capire a tutti che mettere i bastoni nelle ruote dell'economia italiana è un danno per l'intera Europa e liberare investimenti produttivi europei e italiani è essenziale. Renzi sembra averlo capito e si muove con accortezza, ma alcune intemperanze del passato e l'assenza di risultati apprezzabili del semestre a guida italiana non aiutano lui e, su un terreno totalmente diverso, non aiutano neppure Draghi a costruire un consenso su un'azione di politica monetaria che serve davvero a tutta l'Europa e, cioè, una piattaforma che esprime ovviamente l'autonomia della banca ma è anche allo stesso tempo politica perché va nella direzione degli Stati Uniti d'Europa. Fino ad ora Draghi non ha mai sbagliato un colpo e, come abbiamo già detto, la sua grande capacità è quella di cogliere il momento politico giusto per fare, e fare bene, ciò che serve. Questa volta ha contro l'opinione pubblica tedesca, ha ragione ma non gli viene data, e per di più sull'Italia incombe il giudizio di primavera della religiosissima Commissione egemonizzata dai tedeschi. Al vertice franco-tedesco di Deauville si disse ristrutturiamo il debito privato e salviamo la Grecia, ma non si faranno le stesse cose per i Paesi con alto debito e questo produsse quello che tutti ricordano a scapito di Spagna e Italia. Oggi non ci possiamo permettere di correre lo stesso rischio perché i mercati ci farebbero tornare a ballare. Il presidente del Consiglio italiano deve dimostrare di avere la forza personale e il seguito per spingere l'Europa a fare un progresso decisivo in chiave politica e farebbe bene a dire le cose come stanno e a non privarsi dei contributi di esperienza che potrebbero rivelarsi preziosi. La partita non è facile, anzi difficilissima, ma dobbiamo vincerla. Sappiamo che l'Italia ha le risorse per farcela e ce lo auguriamo sinceramente. Buon Natale a tutti.
P.S. In questa situazione il cambio imminente della Presidenza della Repubblica non può essere terreno di sperimentazioni. Il cammino per arrivare alla normalità passa per una transizione complicata, non sono consentite distrazioni. Servono la testa e le mani esperte di un Presidente all'altezza del compito.

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