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Questo articolo è stato pubblicato il 27 dicembre 2014 alle ore 09:41.

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La prima volta che ho sentito parlare di Denis Johnson è stata qualche anno fa durante un'intervista a Cat Power. Le avevo chiesto com'era vivere a Miami e aveva risposto: «Come stare a New York dopo una detonazione nucleare». Era un'idea che le era venuta dopo aver letto Fiskadoro, un romanzo di Denis Johnson ambientato in Florida sessant'anni dopo l'esplosione di una bomba che lascia in eredità una società slabbrata, dalla memoria languida, in cui si aspetta il secondo Avvento di Gesù e Bob Marley e c'è gente che si fa chiamare Cassius Clay Sugar Ray (a pensarci bene, non è un posto diverso da New York senza esplosione nucleare). In quella stessa intervista mi ero ritrovata a nominare DFW e Cat Power aveva detto: «David Foster Who?» (Non credo stesse scherzando). «Lascia perdere questo e leggi Johnson».

Ora, confrontare Denis Johnson e David Foster Wallace non aveva senso in quella conversazione e tantomeno ne ha qui. Però è vero che il nostro eterno ricorso alla letteratura americana è abbastanza monotematico e lascia ai margini tutta una serie di beautiful losers che devono confidare in un premio – nel 2007 Johnson ha vinto il National Book Award per Albero di Fumo, pubblicato da Mondadori qualche anno fa – nelle citazioni impreviste di una cantante o in un certificato di adozione rilasciato dalla Paris Review per uscire dal ghetto di quelli che sono bravi ma mai abbastanza. Che Johnson stia uscendo da quel ghetto è giusto, che debba essere letto molto di più è un fatto, soprattutto in Italia. The Laughing Monsters, da poco in libreria in America (verrà pubblicato da Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi), magari agevolerà ulteriormente il destino di un autore che ha dalla sua l'enorme merito di non aver dissipato il proprio stile o la propria visione – parola che nel suo caso è più che opportuna – per diventare più appetibile.

A oggi, Johnson ha scritto romanzi sulla strada, racconti che ruotano attorno alla dipendenza, storie di frontiera e thriller ambientati in Africa – The Laughing Monsters, appunto – che non solo vanno a parare in luoghi molto diversi, ma si manifestano in luoghi diversi: ho comprato i suoi libri nei cestoni dei negozi a novantanove centesimi specializzati in Vhs porno così come in librerie molto educate che lo mettevano nella sezione convenientemente intitolata COSA DOVETE LEGGERE ADESSO. Mi sembrava che Johnson potesse stare ovunque. Sugli scaffali assieme a Richard Ford, di cui è stato una versione meno compassata e più incline alla violenza, o insieme con William Burroughs, per l'umorismo asettico con cui immaginava società parallele, o accanto a Graham Greene, tanto che recentemente ha detto al suo editor Jonathan Galassi: «Non sto cercando di fare Graham Greene. Io penso di essere Graham Greene». Ma pure sullo schermo vicino a Rust Cohle di True Detective, perché molto prima che Nic Pizzolatto desse un nome a quella figura solitaria e devota alla Lone Star texana, c'è stato un bellissimo romanzo che si chiama Angeli, pubblicato da Feltrinelli ormai secoli fa, in cui faceva una comparsa.

Ridurre uno scrittore ai minimi termini della sua biografia è una pessima idea in generale, ma Johnson è figlio di un diplomatico vicino alla Cia che per un po' lo ha costretto a una vita nomade, tra Germania, Filippine e Giappone. Nei suoi romanzi, questo eclettismo e questo cercare di andare sempre altrove si sente, ed è come se l'autore facesse di tutto per non avere una residenza fissa nella fiction contemporanea. Se le sue prime fatiche hanno le suggestioni del dirty realism – etichetta che non è mai piaciuta a Raymond Carver, ma che ha ancora una forza descrittiva – Johnson in realtà ha rinunciato quasi subito alla malinconia spesso asfittica dell'America emarginata a furia di allucinazioni e paradossi (in questo lo aiuta il fatto di aver iniziato come poeta). Lo scrittore parla spesso di quando un uomo o una nazione si spezzano e diventano un'altra cosa. Non lo fa con particolare empatia o grazia, ma con la forza di chi deve uscire dal ghetto. Nella sua raccolta Jesus' Son (Einaudi, 2000) – il titolo è un chiaro omaggio a Lou Reed – scriveva: «Tutti questi svitati, e io che in mezzo a loro me la cavo sempre meglio. Non sapevo, non avrei mai immaginato di striscio che poteva esserci un posto per quelli come noi». Seppure in maniera più lenta di quanto il suo talento meriterebbe, Denis Johnson il suo posto l'ha trovato.

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