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Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2014 alle ore 11:10.

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Foto di Brunella GiolivoFoto di Brunella Giolivo

È ad alta densità di immagini, di suggestioni, di metafore, di rimandi teatrali, letterari, musicali il “Natale in casa Cupiello” nella trasposizione del regista Antonio Latella. Con chiarezza di visione c'è il Brecht di “Madre coraggio”, in quel pesante carro trascinato dalla protagonista; c'è il Pirandello dei “Sei personaggi…” con quella schiera in proscenio, immobile, in cerca di un autore per poter rappresentare la loro vita; c'è anche lo spirito di Kantor; e incombe l'ombra di Kafka.

Ad accenni di sceneggiata subentra l'eco della tragedia classica, col coro tragico; al teatro musicale di Monteverdi coi suoi recitativi, le liriche di Rossini. E c'è, infine, il tono, l'atmosfera, e le pose, della pittura barocca napoletana, a suggellare una messinscena di pura teatralità contemporanea, di intelligente e geniale lettura di un “classico” lontana dai cliché di una certa tradizione che vorrebbe le opere di Eduardo De Filippo riproposte secondo stilemi canonici immediatamente riconducibili.

Latella, come sempre e qui ancor una volta con nuova inventiva e, direi, rinnovato furore creativo, scardina linguaggi e stili, cuce tradizione e modernità per approdare ad un ulteriore segno contemporaneo. Assumendo pienamente il testo – vincolato dal rispetto integrale – rimette in moto idee e lascia alle parole suggerire e scatenare invenzioni linguistiche ed espressive. A ciascuno dei tre atti imprime una visione a sé pur nella struttura unitaria dell'intera commedia che, strappata dal realismo oleografico diventa epica, universale, con protagonisti Luca Cupiello, il capofamiglia, la moglie Concetta, il figlio Tommasino, la figlia Ninuccia, lo zio Pasquale, e una fauna umana di contorno che vedrà tutti coinvolti a causa di un triangolo amoroso che metterà in luce le vite misere, dolorose e quotidiane di quella famiglia apparentemente felice.

Il primo atto si apre con tutti i personaggi schierati come statuine di un presepe nero, bendati, a descriversi nelle loro azioni scoprendo il volto man mano, mentre una enorme cometa di fiori gialli – crisantemi che preludono il luttuoso dramma finale – incombe come una tagliola calando dall'alto e, rimanendo sospesa, dominare l'intero palcoscenico. L'unico vestito di bianco è Luca (Francesco Manetti), intento a declamare e a scrivere nell'aria le parole del testo, comprese le didascalie del copione, che ha come centro la sua fissazione maniacale del presepe da costruire ogni vigilia di natale con sempre maggior cura. Ossessione che non gli farà accorgere del graduale sfascio della famiglia. Nella seconda parte, intento sempre a scrivere, lo ritroviamo, evidenziando ancor di più il suo isolarsi dalla realtà, all'interno di un'enorme teca collocata sopra una carretta trascinata dalla moglie su e giù nel vuoto palcoscenico. Ed è lei (Monica Piseddu) il vero motore della vicenda, la donna forte, la casa, colei che nutre tutti. Attorno al suo ininterrotto girare portando il peso della fatica quotidiana, vivono tutti gli altri in un dinamismo nevrotico di relazioni umane movimentato dagli intrecci che innescano le rivelazioni tra la figlia (Valentina Vacca), l'amante (Giuseppe Lanino) e il genero (Francesco Villano).

Ciascun personaggio porta un animale feticcio, di pezza – polli, tacchini, maiali, pecore - dono per il pranzo natalizio, ma anche bestie di un presepe vivente cui si è costretti partecipare. Nella baraonda che si scatenerà tra i commensali, con innesto rock e la voce originale di Eduardo che ripete di rimettersi a fare il presepe (quale invito più eloquente a riadattare la sua commedia!) i pupazzi verranno infine ammassati come carcasse in quella sorta di reliquario che appesantirà ulteriormente il fardello di “Madre Coraggio”. Sembra pensato come un Requiem il terzo atto. Quasi tutto musicale: dall'angelo (il portinaio) che si cala dall'alto intonando note napoletane (Leandro Amato), al medico contraltista con l'aria della Calunnia dal “Barbiere di Siviglia” (Maurizio Rippa), alla canzone dell'amante Vittorio, al coro di litanie delle comari en-travesti in larghe crinoline nere che rimandano alla “Gatta Cenerentola”, mentre parlano del caffè e dei fagioli. Il tutto immerso in una penombra da incubo, e tutti, come ad una veglia funebre, attorno alla mangiatoia dove Cupiello è adagiato nudo, morente, in preda a spasmi, assistito dalla moglie cristallizzata in una posa da Madonna desolata. Ai piedi della mangiatoia, con lo sguardo nel vuoto, il figlio (Lino Musella) risponderà con l'agognato “sì” alla ossessiva domanda del padre “Te piace o presepe?”. E, con un gesto estremo che spiazza e urta, prenderà il cuscino per soffocare il padre. Un parricidio che Latella si inventa con licenza poetica forse per dirci del processo fisiologico che abbisogna che i figli uccidano i padri per poter crescere e rinascere. Tema, quello generazionale, che sembra interessare il lavoro futuro di Latella.

A scaldare quel corpo esamine, e quei simulacri di vita rimasti, saranno un bue e un asinello veri che avanzeranno dal fondo fermandosi presso la culla-mangiatoia. Sembrerebbero loro i soli portatori di speranza. Spettacolo corale di grande intensità (da citare gli altri interpreti: Emilio Vacca, Michelangelo Dalisi, Alessandra Borgia, Annibale Pavone) di appassionata drammaturgia (di Linda Dalisi), e di encomiabile, geniale creatività.

“Natale in casa Cupiello” di Eduardo de Filippo, regia Antonio Latella, drammaturga del progetto Linda Dalisi, scene Simone Mannino e Simona D'Amico, costumi Fabio Sonnino, musiche Franco Visioli, luci Simone De Angelis. Produzione Teatro di Roma. Al Teatro Argentina di Roma fino all'1 gennaio 2015

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