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Tambora, che eruzione!

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Tambora, che eruzione!

  • –Patrizia Caraveo

Quando pensiamo a una eruzione vulcanica di straordinaria violenza, il primo nome che affiora dalla memoria è quello del Krakatoa, esploso nel 1883, ma sbagliamo per difetto. Nel corso degli ultimi 10.000 anni, il vero primato per la furia eruttiva va al vulcano Tambora che esplose nell'aprile 1815 nell'isola indonesiana di Sumbawa, nello stesso cerchio di fuoco del Krakatoa. Il boato arrivò fino a Sumatra, a 2600 km di distanza, accompagnato da una eloquente pioggia di ceneri. Il rappresentante della corona inglese a Java (a più di 1000 km da Sumbawa) descrive giorni di assoluta oscurità ma, in un'epoca di scarse comunicazioni, la devastante calamità che aveva causato decine di migliaia di vittime nella lontana Indonesia non ebbe eco in Europa. Nessuno collegò alla polvere scagliata nell'alta atmosfera dal vulcano la sequenza di tramonti intensamente rossi che si registrarono in Europa e che ispirarono pittori del calibro di William Turner. Insieme alla polvere, erano state liberate milioni di tonnellate di acido solforico che, grazie alla posizione quasi equatoriale del vulcano esploso, avevano trovato in quota i venti perfetti per globalizzare l'effetto dell'esplosione. Gas e polveri erano così state spalmate su tutta la terra alterando la capacità delle nubi di assorbire, e di riflettere, la luce del Sole.
Gli effetti sul clima si videro l'anno successivo, con un'estate straordinariamente fredda e piovosa, talmente eccezionale da fare passare alla storia il 1816 come «l'anno senza estate». Il maltempo non interessò solo l'Europa: sulla costa est degli Stati Uniti nevicò a giugno e nelle province dello Yunnan, nel sud della Cina, la pioggia non diede tregua, mentre in India si registrò una alterazione drammatica del ciclo monsonico che creò le condizioni per l'insorgere di una terrificante epidemia di colera.
Piogge torrenziali e freddo intenso rovinarono i raccolti in tutta l'Europa, fecero marcire le patate in Irlanda e il riso nelle fertili valli cinesi dando il via a un circolo vizioso di carestia, povertà e malattie che infuriarono fino al 1818, quando finalmente il tempo ritornò alla normalità. Il prezzo pagato alla carestia fu altissimo, con decine di migliaia di morti per denutrizione nella sola Europa. In Irlanda, alla perdita del raccolto di patate si sommò l'epidemia di tifo che decimò la popolazione. I sopravvissuti emigrarono in massa negli Stati Uniti dove, nel 1817, si registrò un picco senza precedenti di arrivi dall'Europa.
Il libro Tambora: the eruption that changed the world racconta la storia della peggiore crisi climatica mai registrata nel corso dell'ultimo millennio. È un illuminante esempio di cambiamento climatico, temporaneo, ma non per questo meno distruttivo, indotto da un fenomeno tanto preciso quanto trascurato: una colossale eruzione vulcanica, duecento anni fa.
L'autore del libro, Gillen D'Arcy Wood, non è un climatologo né tantomeno un vulcanologo, bensì un professore di letteratura che ha cercato le tracce del maltempo eccezionale degli anni immediatamente successivi a Tambora in poesie, romanzi, carteggi epistolari e resoconti militari. È affascinante scoprire che una sequenza di tempeste estive di inusitata violenza, che fecero alzare il livello del lago di Ginevra fino a inondare la città, sono alla base di poesie crepuscolari di Lord Byron così come del romanzo horror Frankenstein, scritto da Mary Shelley per partecipare alla sfida letteraria tra villeggianti annoiati, perché confinati dal brutto tempo in una lussuosa villa con vista lago.
I facoltosi viaggiatori inglesi, che, dopo la sconfitta di Napoleone, avevano ripreso la tradizione del tour europeo, nelle loro lettere descrivono strade affollate di mendicanti macilenti e affamati. Non per niente il 1817 è noto in Germania come «l'anno dei mendicanti» mentre in Svizzera, uno dei paesi più poveri dell'Europa del tempo, è «l'anno della disperazione».
La carestia terribile che si abbatté nella provincia cinese della Yunnan fece rifiorire la poesia dei sette dolori, un antico filone letterario della tradizione cinese. La regione, chiamata anche la terra dell'eterna primavera, era nota per il suo clima mite e la ricchezza dei raccolti, fino a quando Tambora non rovinò l'incantesimo con basse temperature e continue piogge che impedirono la maturazione del riso per tre stagioni consecutive. Il poeta Li Yuyang scrisse liriche struggenti tradotte per la prima volta in inglese. La descrizione della coda degli affamati che attendono un po' di riso distribuito dallo stato (un servizio che in Europa non esisteva) ha una strordinaria potenza evocativa: «tornerò anche domani se non sarò già morto e chiederò ancora, ma senza clamore, per non indisporvi».
Nei giovani Stati Uniti, il clima pazzo distrusse la ricchezza di Thomas Jefferson, costretto a impegnare la tenuta di Monticello, e spinse molti dei disperati, appena arrivati dall'Europa, a tentare il viaggio verso ovest.
Ricostruire il clima attraverso la letteratura è un metodo straordinariamente efficace e originale , un vero esempio di studio multidisciplinare dove i risultati dei carotaggi dei ghiacci artici e dei cerchi della crescita degli alberi vanno a braccetto con poesie e romanzi che abbiamo (forse) letto senza assolutamente apprezzare il particolare contesto climatico.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Gillen D'Arcy Wood, Tambora, the eruption that changed the world, Princeton University press,
pagg. 294, $ 22,19