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Questo articolo è stato pubblicato il 05 gennaio 2015 alle ore 11:12.

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Crescere, crescere, senza avere paura di farlo. A suon di musica. Milano, 27 giugno 1980, San Siro. Come cantava Venditti qualche anno dopo nella sua Piero e Cinzia, «lo stadio era pieno».

Tutti aspettavano l’idolo di quegli anni, il grande Bob Marley. Ma un artista italiano seppe scaldare già da prima il pubblico con le sue melodie e i suoi ritmi. Pino Daniele già lo conoscevo bene, soprattutto grazie a un amico chitarrista che mi fece apprezzare i suoi primi album. Quegli album con un sound così caldo, ma così caldo che anche se, con l’incoscienza e il manicheismo che spesso si ha in quegli anni, snobbavi tutto quanto non fosse prodotto in Inghilterra o in America, ti facevano dire: «Cavolo, questo Pino Daniele è italiano, eppure la sua musica mi piace, mi prende, mi fa muovere». E dire che, fin da allora, ero un legno.

Ma come facevi a stare fermo ascoltando quel “nero a metà” che ti trascinava a muovere le gambe, con quei testi così forti accompagnati da una musica altrettanto tirata? «Come è bello lavorare sulla tangenziale...»: ascoltate l’attacco de Il mare e ditemi se non vi vengono i brividi ancora oggi, se riuscite a stare fermi. E immaginate di sentire Pino e la sua band a San Siro, accompagnato dall’emozione dei vostri 16 anni.

«E sì che Milano, quel giorno era Giamaica», canta ancora Venditti. Non solo, caro Antonello. Grazie a quell’artista unico, al musicista forse più interessante e mondiale che abbia espresso l’Italia negli ultimi 40 anni, Milano era il mondo. E io c’ero.

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