Lo hanno ricordato, negli ultimi giorni, da ogni latitudine editoriale e social, con un tributo ad memoriam. La cosa, per una volta, ci conforta. Perché parliamo di un uomo che per trentasette anni ha fieramente cantato in dialetto partenopeo poggiando i suoi versi su splendide chitarre custom (su tutte, la celebre Paradis Avalon) e su complicati e poco italici temi sonori modali, per poi trasformarli in qualcosa che si potesse – e potrà – facilmente cantare sotto la doccia. E così ci ha lasciati Pino Daniele, il nero a metà della nostra musica leggera, grande interprete di se stesso e traduttore di musiche dal mondo, dal jazz, alle musiche etniche, al rock. Fino alla tarantella e, naturalmente, al blues. Portando idealmente Napoli a passeggio tra evocazioni di cose musicali arcaiche come la cornetta di Armstrong e le Arie di Pergolesi o contemporanee come i duelli sonori con Pat Metheny, di suoni vicini come le tammorre e i putipù del Vesuvio e di ritmi agli antipodi, come quelli dell'anima condivisi con il musicista sufi Omar Farouk. Dagli esordi jazz-progressive con i "Batracomiomachia" e con i "Napoli Centrale" fino alle collaborazioni internazionali in studio o live con Wayne Shorter, Gato Barbieri ed Eric Clapton, Pino Daniele ha raccontato Napoli con il suono della sua voce (che sembra sempre suggerire qualcosa e nasce da un cuore debole e coraggioso, rivelato nella la poesia dell'amico Troisi 'O ssaje come fa 'o core) e un pensiero musicale unico nel panorama cantautore italiano. Perché delle canzoni di Pino Daniele ricordiamo subito ritmo e suoni, prima ancora delle parole. Le sue canzoni nascevano così e venivano confezionate con la precisione di una frolla di Attanasio, senza lasciar mai sbrodolare assolo o pattern, al contrario contenendo il suo virtuosismo all'interno del brano e facendone la cifra poetica stessa della sua musica. Basti riascoltare brani come Ue Man e Puozze Passà Nu Guaio. Canzoni che continuano a evocare qualcosa di straniero, che poggia però sulle spalle della grande tradizione melodica e ritmica della musica napoletana, dalle villanelle rinascimentali a Murolo. Ne è un esempio l'album Medina del 2001, capolavoro di world music, preziosa sintesi di lingue, dialetti, visioni e di culture, ben raccontata nel breve e recente pamphlet etnomusicologico di Marco Aime e Emiliano Visconti, Je so' pazzo - Pop e dialetto nella canzone d'autore italiana da Jannacci a Pino Daniele (EDT).
. L'ultima tournée, «Nero a metà», ha congedato il pubblico di Daniele a Napoli e a Milano, poco prima di Natale. Le ultime, definitive, parole le ha soffiate pochi giorni fa, a Capodanno e in mondovisione. Pino Daniele ha avuto in sorte di chiudere con la consueta discrezione e generosità il tele-veglione di Rai 1, lasciando al suo pubblico l'ultima, preziosa, testimonianza.
Pino Daniele è stato un autore internazionale che ha reso popolare Napoli in Italia e il nostro Paese nel mondo. Ha sperimentato suoni, parole e ritmi, rendendoli ascoltabili, quasi ovunque. Se n'è andato nel cuore della notte, tra domenica e lunedì scorso; la sua pagina Facebook lascia una immagine in qualche modo profetica, postata il primo giorno dell'anno in Valle d'Aosta: «Back Home… In viaggio verso casa». Il suo nome intreccia quelli dei testimoni del Rinascimento napoletano, da James Senese agli Almamegretta, da Tullio De Piscopo a Enzo Avitabile. Che proprio lunedì con i Bottari e Tony Esposito ha reso omaggio a Daniele a Cava dei Tirreni, insieme a 30mila persone, trasformando una Notte Bianca nel primo commosso omaggio all'autore di Terra mia, primo album del '77 pensato e realizzato proprio con Avitabile, Senese e De Piscopo. La musica di Pino Daniele è una faccenda di cuore, traduzione leggera di delusioni, sogni e visioni di una vita vissuta a osservare la più stratificata città del mondo.
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