Cultura

La franchezza di Francesco

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La franchezza di Francesco

  • –Carlo Ossola

Ebbi a seguire, nei miei studi universitari, tra gli altri Maestri, Carlo Mazzantini; egli ci parlava di Marco Aurelio (ho qui la sua edizione dei Ricordi, Torino, Paravia, 1940) il quale era lieto di aver appreso da Claudio Massimo, filosofo stoico, queste semplici regole di vita: «il non meravigliarsi mai, né turbarsi, né arrivare in alcuna occasione troppo presto o troppo tardi, il non trovarsi mai imbarazzato, né abbattuto \, né poi di nuovo adirato o sospettoso; la prontezza nel beneficiare, nel perdonare, nel dir tutto con sincerità» (libro I, 15). È la lunga storia della parre-sia, del parlar con franchezza, con rispetto di sé e dell'altro, in modo diretto e semplice.
Alla parre-sia Michel Foucault ha dedicato una parte cospicua dei suoi corsi, da quelli storici (ricordo il cap. IV: La parresia e la cura di sé del suo volume Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli 1996 e 2005), a quelli propriamente filosofici: molta parte dell'Ermeneutica del soggetto e non poche lezioni al Collège de France, tra le quali va ricordato il corso Il coraggio della verità (1984), tradotto da Feltrinelli nel 2011. Erano concetti e preoccupazioni etiche che, nello stesso Collège, Pierre Hadot illustrava nel suo Esercizi spirituali e filosofia antica: dire la verità e trovare il momento efficace (e accogliente) per dirla: parre-sia e kairós.
Questi ricordi e letture mi sono tornati alla mente, la vigilia di Natale, trovando nel «Corriere della Sera» un articolo di Vittorio Messori, I dubbi sulla svolta di Papa Francesco, nel quale tra molte altre velate e men velate critiche, l'autore segnala sconcerto per quella «imprevedibilità» del pontefice: «Una imprevedibilità che continua, turbando la tranquillità del cattolico medio, abituato a fare a meno di pensare in proprio, quanto a fede e costumi, ed esortato a limitarsi a "seguire il Papa". Già, ma quale Papa?». Quello delle prediche a Santa Marta o quello che corre a Lampedusa, che fustiga la Curia o che incontra eminenti laici miscredenti?
Per rispondere a tale domanda basterebbe ricordarsi di parre-sia e kairós. Poiché il parlare agli uomini è parola rivolta a ciascuno di essi, non alla Cattedra di legno aurato; come ricorda, con limpida precisione, il filosofo: «Il che significa che è il kairós a definire per l'essenziale le regole della parre-sia, ovvero l'occasione, la quale rappresenta per l'esattezza la situazione degli individui gli uni rispetto agli altri, nonché il momento che viene scelto per dire la verità. È per l'appunto in funzione di colui al quale ci si rivolge, e del momento nel quale a lui ci si indirizza, che la parre-sia dovrà adattare non tanto il contenuto del discorso vero, quanto la forma in cui tale discorso verrà proferito» (Michel Foucault, L'ermeneutica del soggetto, 2003). Tanti gli uomini, altrettanti i discorsi chiamati a suscitare in ciascuno la verità; non aveva detto sant'Agostino: in interiore homine habitat veritas? E dove dovrebbe suscitarla, il Papa, la verità? Se non nella carne vivente di ogni uomo (fedele che sia o "pecorella smarrita" o mai conscia d'un ovile purchessia).
L'articolo ha dato luogo a vibranti reazioni, alcune meditate, altre scomposte; tra le più articolate si segnala quella di Leonardo Boff , teologo della liberazione, il quale ricorda che «quello che lui \ deplora è la "imprevedibilità" della azione pastorale di questo Papa. Or bene, questa è la caratteristica dello Spirito, la sua imprevedibilità, come lo dice San Giovanni: "Lo Spirito soffia dove vuole, ascolti la sua voce, però non sai da dove viene né verso dove va" (3,8). La sua natura è la improvvisa irruzione con i suoi doni e carismi». E giunge a concludere richiamando la specificità della chiesa latino-americana dalla quale il Papa proviene: «Questa è una altra insufficienza di Messori: non avere la dimensione del fatto che oggi come oggi il cristianesimo è una religione del Terzo Mondo, come ha accentuato tante volte il teologo tedesco Johan Baptist Metz. In Europa vivono solo il 25% dei cattolici; il 72,56% vive nel Terzo Mondo (in America Latina il 48,75%). Perché non può venire da questa maggioranza uno che lo Spirito l'ha fatto vescovo di Roma e Papa universale? Perché non accettare le novità che derivano da queste chiese, che già non sono chiese-immagine delle vecchie Chiese europee ma chiese-sorgenti con i loro martiri, confessori e teologi?».
Il rischio delle "verità statistiche" è grande, e pare a me una limitazione assai forte pensare che il Papa "parli così" semplicemente per una peculiarità geografica, perché viene dall'America latina. Si invoca lo Spirito e poi se ne circoscrive l'azione…
Credo che sia più congruo ammirare quanto di una millenaria tradizione greco-latina e cristiana questo pontefice faccia rivivere: la parre-sia dei Greci e la simplicitas – ma vigorosa – dei Padri; richiama Gregorio Magno e san Francesco, Marco Aurelio e Agostino. Il suo kairós discende dalla visione della Chiesa «ospedale da campo»: si corre dove ci sono i feriti, non da dietro le trincee ma nel campo aperto; la sua parola è "imprevedibile" come lo è l'accidentato agone di miseria e di morte che ci tocca attraversare. Una Chiesa ospedale e ospitale (la radice è la stessa) che sovviene e accoglie, secondo un gesto antichissimo, omerico: «oportet hospitem praesentem honorare»; l'ospite, il forestiero, il migrante, lo sperduto è così sacro che sin dalla Regula monachorum di san Benedetto essi hanno un posto preminente: «Abbia sollecita premura dei malati, dei piccoli, degli ospiti e dei poveri con la massima diligenza, ben sapendo che nel giorno del giudizio dovrà rendere conto di tutte queste persone affidate alle sue cure \», e in specie in tutto il cap. LIII, De hospitibus suscipiendis, loro dedicato: «1. Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto" e a tutti si renda il debito onore»; così forte l'esigenza di chi bussa che, per lui, anche il digiuno può essere infranto: «Ieiunium a priore frangatur propter hospitem».
Non sarà allora quell'«imprevedibilità», piuttosto, la proiezione del nostro brancolare ignari del prezioso retaggio d'Occidente, dei doni di parre-sia e kairós?
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