Cultura

Napoli in un femminiello

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Teatro e danza

Napoli in un femminiello

  • –Renato Palazzi

Che bello spettacolo fresco, brillante e insieme amaro al punto giusto, che gioiello di misura e intelligenza ha realizzato Arturo Cirillo con Scende giù per Toledo, adattamento di alcuni capitoli – l'asse portante della vicenda – dell'omonimo romanzo di Giuseppe Patroni Griffi. Artista dall'aguzza sensibilità, il quarantaseienne Cirillo – oggi esponente di spicco della generazione di mezzo della scena italiana – è stato sempre ritenuto una sorta di ideale trait d'union fra innovazione e tradizione, ma forse ormai questa collocazione gli va stretta: forse in realtà lui trascende entrambe le categorie, è un talento fuori dal tempo, capace di parlare al pubblico di oggi sfuggendo ad anguste delimitazioni stilistiche.
In questi anni Cirillo si è mosso davvero a tutto campo, passando senza scosse da Scarpetta a Copi, da Molière – autore di riferimento, terreno vivo di ricerca come lo era stato per il suo maestro, Carlo Cecchi – a Shakespeare, sempre applicando ai testi affrontati quel suo atteggiamento di libertà da ogni sorta di schemi precostituiti, sempre lasciando su di essi il segno di un approccio del tutto personale. Lo si è visto, nella scorsa stagione, anche dal modo con cui ha conferito spessore di vita e verità di emozioni a Zoo di vetro di Tennesse Williams, spettacolo a mio avviso sottovalutato, che avrebbe meritato ben più ampie attenzioni (vedi notizia in alto).
Ora l'attore-regista, originario di Castellammare, e pienamente identificato con la cultura della sua terra, agisce su una tavolozza all'apparenza più circoscritta, e a lui antropologicamente più vicina: attraverso i sentimenti, i soprassalti emotivi, i sogni e i disinganni di un travestito dei quartieri spagnoli, Rosalinda Sprint, Scende giù per Toledo traccia un vivido affresco della Napoli del '75 – quando il testo fu scritto – passando di continuo dai moti interiori del personaggio alle atmosfere di un intero ambiente, facendo del femminiello l'emblema, la metafora degli slanci e delle contraddizioni di una città eternamente in bilico fra la tenerezza e la violenza.
Attorno a Rosalinda ruota un campionario di varia umanità, la Baronessa, pittoresca senzatetto, "Marlene Dietrich", maitresse e guida affettiva, e gli uomini con cui vagheggia improbabili amori, il malavitoso Gaetano, il giovane cugino Gennaro. A far da filo conduttore è il miraggio, tenacemente coltivato a dispetto di tante traversie, della fuga da Napoli, dell'approdo in Inghilterra, inseguendo la prospettiva di un'altra vita. Alla fine il viaggio si farà: ma prima della partenza dovrà subire un atroce atto di bullismo, e anche le bianche scogliere di Dover, come ogni altra cosa, si riveleranno immancabilmente meno bianche di quanto avesse immaginato.
Già anni fa Cirillo aveva fatto il suo cavallo di battaglia di un altro testo sul mondo dei femminielli napoletani, Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello, incentrato sulle gesta di un misterioso killer che infierisce sugli abitanti di un inquietante quartiere-ghetto riservato solo ai transessuali. Senza nulla togliere a Ruccello, che è stato un grande drammaturgo, e pur tenendo conto della ulteriore maturazione attorale dello stesso Cirillo, bisogna dire che in questo caso la qualità della scrittura di Patroni Griffi – incalzante, cristallina, piena di continui trasalimenti interiori – è ben altra cosa.
Se nel testo di Ruccello la malinconia e la solitudine di Jennifer venivano evocate trasversalmente, attraverso il suo ossessivo rispecchiarsi nelle canzoni di Patty Pravo, con un effetto efficace ma un po' esteriore, qui la trama di sentimenti e smarrimenti della protagonista sembra rivivere come da dentro, con una ricchezza di nervature cui corrisponde una sorprendente leggerezza del linguaggio, nitido, asciutto benché pronto a cogliere i minimi dettagli. L'euforia e il dolore – per lo più non detti, appena suggeriti – si intrecciano senza sosta. Anche l'atto di brutale umiliazione che precede il viaggio di Rosalinda, con tutti i particolari visionariamente osceni che lo accompagnano, non mostra alcun gratuito compiacimento, perché arriva al culmine di un crescendo lungamente preparato.
Nel variopinto bric à brac degli arredi debitamente kitsch ideati da Dario Gessati – la palma luminosa, il letto rotondo, il vistoso paravento – con le vestaglie a fiori e gli abiti di strass e il cappotto col collo rigido "alla Maria Stuarda" retto da stecche di balena (i costumi sono di Gianluca Falaschi), Cirillo-Rosalinda raggiunge qui dei livelli di finezza interpretativa come forse raramente li aveva finora toccati: la labile orditura di speranze e delusioni che contrassegna il personaggio viene evocata attraverso una sottile mescolanza di ironia e compassione, di pudore e profonda adesione emotiva, senza mai cadere nel patetismo né, all'opposto, nella facile caricatura, sul filo di una sorta di incantato stupore per le infinite sfaccettature dell'animo umano. Alla fine, con l'energia di un ventenne, lui continua a correre e saltellare su e giù per la platea, come se non potesse o non volesse più interrompere quel legame empatico che nel frattempo ha stabilito col pubblico.
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Scende giù per Toledo, di Giuseppe Patroni Griffi, regia di Arturo Cirillo, visto a Milano, al Teatro Elfo Puccini