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De Roberto innamorato

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De Roberto innamorato

Federico De Roberto (1861-1927)
Federico De Roberto (1861-1927)

«Love is overrated», salmodiava qualche anno fa un rapper americano. È assai probabile che quel cantante sbagliasse: l'amore non è sopravvalutato (nonostante l'autorevole parere in materia di Pascal); i carteggi amorosi, invece, spesso lo sono. Se non intervengono prima o poi elementi esterni particolarmente clamorosi (come la famiglia di una Eloisa determinata a punire un Abelardo alla radice stessa della sua colpa), nella loro dimensione di assolutezza lirica le missive di struggimento, mancanza o rimpianto rischiano di assomigliarsi tutte, come inevitabilmente si assomigliano questi sentimenti. Meravigliosa banalità dell'amore! Ma anche così nociva da un punto di vista strettamente letterario. Al netto, naturalmente, di tutte le possibili, e nemmeno troppo rare, eccezioni.

Una eccezione è sicuramente il carteggio di Federico De Roberto con il suo grande amore della “maturità” (parliamo di un uomo di meno di quarant'anni): la milanese Ernesta Valle Ribera. Come indica il doppio cognome dell'amata, quando si conoscono Ernesta è una giovane donna sposata, con un bambino piccolo e un marito prevaricatore ma anche signorilmente compiacente, e si direbbe siano proprio i vincoli del matrimonio infelice e le permanenze catanesi di De Roberto a fornire il propellente necessario affinché la passione della coppia esploda in tutta la sua forza.

L'amplissimo carteggio tra i due, meritatamente edito per la prima volta grazie alle ottime cure di Sarah Zappulla Muscarà e di Enzo Zappulla, non si segnala per le scoperte sulla vita intellettuale di De Roberto (che pure ci sono) o per le rivelazioni sulla Milano umbertina (chiaramente riconoscibile sullo sfondo), né per qualche pagina da antologia, degna di entrare in qualsiasi ipotetica Storia universale dell'ardore. Tanto Federico quanto Ernesta sono così impegnati a preoccuparsi per le sorti delle proprie missive e per la frequenza e la lunghezza e il tono delle risposte che ricevono da marginalizzare tutti gli altri argomenti di discussione.

Cosa ha dunque di così prezioso questa raccolta – prezioso e, in qualche modo, anche attuale? Si dubita sempre delle cose più belle è un magnifico referto sull'amore nel mondo post-romantico o, se si vuole, al tempo di quel «romanticismo spretato» che – nella magnifica definizione di Flaubert – definisce la nostra modernità letteraria e sentimentale. De Roberto è un attento lettore dei medici positivisti e non si fa illusioni di sorta (L'illusione è il titolo del primo romanzo del ciclo degli Uzeda); il saggio da lui dedicato all'amore porta non a caso tre parole nel sottotitolo – fisiologia, psicologia, morale – e la più importante è senza dubbio la prima. Federico è stato un misogino militante, ora ama Ernesta, ma si ripromette di rimanere comunque fedele alla “verità”: sino a una certa asprezza. Niente inganni tra loro: non potranno essere soltanto amici, il fondamento del loro rapporto dovrà essere (anche) nella carne.

Se Federico ed Ernesta arriveranno ben presto a costruirsi un calendario privato scandito dalle tappe principali del loro amore (con tanto di anniversari) e se questo calendario si fa scudo sin dall'inizio di palesi eufemismi come «Festa degli Sponsali», non c'è alcuno spazio per un corteggiamento convenzionale. L'amore è chiamata, e non saranno le parole scelte a poter modificare la decisione abissale di rispondere o meno al proprio destino. Ma un carteggio è fatto di parole, inevitabilmente. Come scriversi, allora? Cosa scriversi? Per non vivere la passione a occhi chiusi. Il fascino delle quasi ottocento lettere dei due innamorati è tutto qui: nel tentativo di trovare una lingua moderna dell'amore.

La base di questa lingua rimane ancora romantica e De Roberto non rinuncia a infantilizzare Ernesta secondo un modello di relazione uomo-donna così comune al suo tempo. Le strade di questa ricerca della “verità” saranno dunque essenzialmente due. La prima corrisponde a un superamento della retorica romantica dell'estasi “dall'interno”, attraverso cioè il cospicuo innesto di riferimenti alla fisiologia del desiderio e del possesso, pure addolcita da un lessico di nobile ascendenza letteraria. Basterà qualche esempio. «Oggi voglio venirti a tergo, stringerti con le mani la nuda vita, la vita mia; risalire, risalire ai grappoli elastici, e poi possederti, e farti morire una volta, due volte, tre volte, e poi ancora, ancora, e darti fino all'ultima stilla la midolla delle mie ossa». «Voglio i tuoi piedi nudi sulla mia faccia. Voglio la tua carne nuda contro la mia carne». «Sai come le apro e come le leggo queste tue lettere? Con la carna irrigidita e infocata come nell'attesa di penetrare nella tua carne umida e pulsante».

Per i codici del tardo Ottocento siamo alla pura pornografia. All'inizio Ernesta protesta, ma presto cede, e lascia che Federico impronti alla massima franchezza i loro scambi epistolari. Nulla, a quel punto, ci viene risparmiato: gli aborti procurati di lei, a ripetizione («sarà necessario provvedere»); le polluzioni notturne di lui; gli amplessi imposti con la forza alla coniuge riluttante dal marito; le nuove tipologie di “carezze” cui Federico aspira e che Ernesta si dice pronta a concedergli…
L'altro strumento con cui Federico ed Ernesta cercano di attingere a una difficile schiettezza è strettamente narratologico e sembra mimare alla lontana la tecnica naturalistica dell'oggettività. I due innamorati parlano costantemente (anche se non esclusivamente) di sé alla terza persona.

Lei sarà Renata: letteralmente nata a nuova vita nell'amore per Federico (o Nuccia, da un bamboleggiante Femminuccia). Lui sarà Rico: diminutivo che cancella la prima parte del nome di battesimo, vale a dire quel Fede che – si potrebbe azzardare – allude alla incrollabile fiducia dello scrittore misogino nel primato della fisiologia: lo scrittore misogino ora convertitosi alla passione ma non alle frasi fatte dei romantici. Je est un autre, anche in camera da letto.
Qua e là, prosaicamente, fa la sua comparsa anche la figura del marito di Ernesta/Renata con dosate domande di aiuto rivolte a De Roberto: raccomandazioni con l'editore Treves e richieste di prestiti, ancora e ancora, per coprire i buchi di una amministrazione domestica evidentemente non impeccabile.

Se si dubita sempre delle cose più belle, fosse un dramma e non una raccolta di lettere, questi intermezzi, in cui intuiamo rapidamente il terzo vertice del triangolo, sarebbero la geniale soluzione escogitata dall'autore per prepararci meglio all'ultimo atto.
Tredici anni dopo la fine della relazione adulterina e l'interruzione di quasi ogni contatto, il libro si chiude infatti con una epistola di Renata, che ricompare dal nulla per implorare da Federico una forte somma di danaro necessaria a salvare il proprio figlio da non meglio precisati problemi economici (ma siamo nel 1916 e si intuisce una brutta storia di corruzione per tenere il ragazzo lontano dal fronte). È il tipo di finale che a un romanziere del calibro di De Roberto non sarebbe dispiaciuto: la calda amante di ieri che prende idealmente il posto del marito intrallazzone, una passione più grande delle stesse parole trasformata in oro sonante come tra le mani di un perfido re Mida.

Non si è conservata nessuna risposta, e non abbiamo modo di sapere come Federico reagì a questa domanda accorata (se risposta vi fu). Una ricaduta di misoginia? Indifferenza? Pietà per una madre? Ma al di là del finale – così meravigliosamente feroce da sembrare inventato al tavolino – non possiamo che guardare con simpatia a questi due eroi e martiri dell'Eros moderno: determinati a non cedere agli autoinganni, a vivere l'amore da adulti, e tuttavia caparbi nel loro non rassegnarsi al crudo despotismo della fisiologia.

Federico de Roberto ed Ernesta Valle
Si dubita sempre delle cose più belle. Parole d'amore e di letteratura,
Bompiani, Milano, pagg. 2132, € 35,00

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