Coraggio, ribellione, insofferenza a regole soffocanti e soprattutto un insopprimibile desiderio di libertà: c'era tutto questo nel gesto di Amina Sboui, la ragazza tunisina che nel febbraio 2013 pubblicò su Facebook una foto a seno nudo che fece il giro del mondo.
Sul torace aveva scritto «il mio corpo mi appartiene». Prende il titolo da quella frase tatuata il libro pubblicato in Italia da Giunti e in libreria dal prossimo mercoledì. La ragazza oggi ventenne racconta da dove arriva la provocazione: non un moto improvviso e un po' bizzarro, ma il dispiegarsi di un'indole che rifiutava la rigida e conservatrice impostazione della società tunisina, che prevede per l'educazione della donna una serie di limiti e prescrizioni dettati anche dalla religione musulmana. Il libro ripercorre dunque l'infanzia di Amina, nata in una famiglia borghese (padre medico, madre insegnante), il difficile rapporto con la mamma dipinta come una bigotta incapace di capire l'animo della figlia, la vita in una famiglia allargata secondo le usanze del Paese, la necessità di trasgredire sin da piccola disobbedendo a scuola, rispondendo come non si dovrebbe in casa, vestendo in modo spregiudicato. A questa descrizione si affianca quella del mutamento politico in corso in Tunisia, tratteggiato attraverso gli episodi chiave degli ultimi anni: l'ambulante Mohamed Bouazizi che si dà fuoco il 17 dicembre 2010 (l'esordio di tutte le primavere arabe), la caduta di Ben Alì, l'arrivo al potere dell'islamico Ghannushi. È interessante il punto di vista di una giovane, anzi giovanissima (quante volte li chiamiamo in causa, questi interlocutori di cui sappiamo così poco?), dell'entusiasmo e della consapevolezza con cui ha partecipato alle proteste, della tremenda delusione seguita alla vittoria di Ennhada, il partito islamico, che significava – soprattutto per le donne – il contrario della democrazia tanto agognata.
Le pagine in cui l'autrice racconta del l'esperienza del carcere, quando viene arrestata (a due mesi dalla famosa foto) per avere scritto «Femen» sulla parete del cimitero di Kairouan, sono il cuore del libro. Quel gesto dimostrativo, compiuto poco prima del raduno annuale di 20mila islamisti nella città santa (un gesto alla fine poco consono allo spirito civile della battaglia condivisibile di Amina, del resto da lei stesso definito «gratuito e irragionevole») le costa 75 giorni in cella, prima imputata di detenzione di lacrimogeno, poi per attentato al pudore, formazione di gruppo finalizzato all'aggressione, profanazione di cimitero. A ogni udienza amici e giornalisti sempre più numerosi assistono al suo modo impetuoso di difendersi davanti al giudice. Un grave episodio – una detenuta incinta al quinto mese che perde il bambino per le bastonate di una guardia – le procura un altro capo d'imputazione per «insulti alle sorveglianti» dopo le sue violente critiche a chi non ha fermato l'aggressione. Ma Amina diventa un naturale punto di riferimento, per via del carattere combattivo, del coraggio, delle incitazioni a non abbassare la testa dinanzi ai soprusi.
Una volta scarcerata, la realtà di una vita ormai impossibile in Tunisia le impone di andar via, sceglie Parigi per continuare a studiare e portare avanti la sua lotta, matura un pensiero più autonomo rispetto alle Femen (il gruppo nato in Ucraina nel 2008 al quale si era avvicinata) e decide di scrivere questo libro-testimonianza: «Con i diritti d'autore vorrei aprire un centro d'accoglienza per le donne che escono di prigione», scrive alla fine. Il mio corpo mi appartiene rispecchia esattamente, anche nella scrittura agile e leggera, quel che l'autrice vuole comunicare: una grande carica emotiva, i sogni e le aspirazioni di una giovane generazione nata sui social network. I risultati delle presidenziali dello scorso dicembre, con la vittoria del candidato del fronte laico Essebsi, fanno ben sperare.
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Amina Sboui, Il mio corpo mi appartiene, Giunti, Firenze, pagg. 160,
€ 12,00; in libreria da mercoledì
