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Dall'alto di una torre si gioca il destino di famiglia

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Teatro

Dall'alto di una torre si gioca il destino di famiglia

Parlano anche i silenzi. Gli sguardi. I gesti trattenuti, e quelli manifesti. Parlano i pensieri sottesi, inespressi, che intuiamo. E le posture dei corpi. Le parole, invece, che udiamo, recano sentimenti intimi che, improvvisamente, aprono baratri che determinano l'esistenza. Sono portatrici di verità che si vorrebbe nascondere, di eventi che sconvolgono la mente e gli animi. Taglienti come lame rimangono sospese, in attesa di giudizio. Chiedono di scegliere, di decidere di vivere o morire.

Si deve decretare della vita o della morte di uno solo di due genitori affetti entrambi da una rarissima malattia che li ha colpiti nello stesso momento, e che essi ignorano in quanto tenuti all'oscuro dai figli. La scelta di chi dei due salvare mette in crisi la coscienza del fratello e della sorella, soprattutto di lei, l'unica a risultare compatibile per un possibile trapianto di staminali del midollo. Chi, come nel noto gioco, buttare giù dalla torre? Sembra questo l'atroce dilemma.

O, invece, optare per altre soluzioni come quella di lasciare che la malattia faccia il suo corso e consumi entrambi. Il drammaturgo Filippo Gili in “Dall'alto di una fredda torre ”, ritrae questo gruppo di famiglia fotografandone i moti interiori, facendo affiorare luci e ombre dell'anima, ponendo riflessioni importanti, morali e sociali, su destino e libero arbitrio, su amore e dolore, su morte e vita. Temi che trascolorano dal particolare all'universale grazie ad una scrittura scorrevole, quotidiana, e sempre più ficcante – forse un po' troppo dilatata – che dosa ironia e sarcasmo, e che, nel crescere dei dialoghi, a quattro e a due, assumerà i toni della tragedia, ma fermandosi sempre a un passo dal respiro definitivo.

La partecipata messinscena ci vede schierati su due tribune frontali dentro lo spazio scenico definito da tre ambienti illuminati ora da luci calde, ora fredde: un tavolo al centro per il ritrovo conviviale, e di tensioni, della famiglia; un divano, poltrona e tavolinetto per le confessioni, gli interrogativi, lo smarrimento, le paure da sviscerare; un asettico studio medico per le rivelazioni, le domande e le questioni etiche che la dottoressa pone in quel suo insistere di poter salvare almeno una persona. La recitazione naturalistica chiesta dal regista Francesco Frangipane al sestetto di attori – Massimiliano Benvenuto, Ermanno De Biagi, Michela Martini, Aglaia Mora, Matteo Quinzi, Barbara Ronchi - ha l'effetto coinvolgente di immedesimarci nel dramma, di interpellarci, di scuoterci. E scavare anche in noi, come la goccia d'acqua lenta e inesorabile che cade e di cui udiamo il suono, il dilemma, l'impotenza, la responsabilità di una scelta.

“Dall'alto di una fredda torre”, di Filippo Gili, regia Francesco Frangipane, scenografia Francesco Ghisu, costumi Sabrina Beretta, musica Jonis Bascir, luci Giuseppe Filipponio. Progetto Goldstein, in collaborazione con Teatro Argot Studio e Uffici Teatrali. A Roma, Teatro Argot, fino al 25 gennaio.

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