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Maestra del nostro tempo

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Maestra del nostro tempo

Martha Nussbaum ha sempre accompagnato la sua opera di storica della filosofia antica a un forte impegno civile e a una elaborazione concettuale capace di incidere profondamente sul dibattito politico contemporaneo. Ciò accade per esempio per la teoria delle capabilities elaborata con Amartya Sen negli anni ’80 e poi sviluppata in una versione autonoma cui la filosofa americana ha legato una riflessione sul ruolo dell’educazione quale strategia fondamentale per riformare la società contemporanea.

Proprio a lei ci siamo ispirati nel lanciare da queste colonne la proposta di introdurre nelle scuole italiane, nell’ambito di Cittadinanza e Costituzione, l’insegnamento obbligatorio della logica, disciplina indispensabile per la formazione del pensiero critico, affinché siano forniti ai cittadini di domani gli strumenti necessari per pensare con la propria testa, formulare opinioni corrette, accettare la pluralità dei punti di vista, provare empatia verso l’altro, o il diverso, sviluppare spiccate capacità deliberative.

In che modo dunque la logica e la retorica – ma anche, pensando ad Aristotele, l’etica e la poetica – possono fornire spunti e strumenti pedagogici a chi insegna oggi o, ancora meglio, a chi intende riformare il sistema educativo? E in quali pensatori del passato possiamo trovare spunti per affrontare i problemi di oggi?

«Tra i molti di diverse epoche e diversi luoghi che potrei citare – risponde Martha Nussbaum – tre mi sembrano importanti: Socrate nei Dialoghi di Platone; la lettera del filosofo stoico romano Seneca sull’ ”educazione liberale”; e la teoria e la pratica del filosofo ed educatore indiano Rabindranath Tagore».

«Socrate – spiega Nussbaum – ha sfidato la democrazia ateniese a condurre una “vita pensata”, a preoccuparsi delle ragioni che diamo per le nostre convinzioni, creando una cultura democratica della ragione e dell’argomentazione, piuttosto che dell’autorità e della pressione dei Pari. La sua sfida è rilevante oggi come allora, le democrazie moderne hanno gli stessi difetti della sua Atene. Ma una “vita pensata”, piena di riflessione e di ricerca, è difficile: implica l’imparare ad argomentare, a curare la precisione, la validità e la struttura logica. Non c’è miglior modo di imparare queste cose che studiare i primi dialoghi di Platone in uno spirito di pedagogia critica e aperta».

E in che modo possono contribuirvi Seneca e Tagore? «Nel primo secolo dopo Cristo, Seneca si trovava di fronte a una forma di educazione dominata dall’apprendimento passivo, in cui le persone assorbivano i testi canonici della loro cultura senza né comprensione né attività reali, e li chiamavano “studia liberalia”, cioè “adatti a un gentiluomo nato libero”. Seneca dice che dovremmo invece preferire gli “studia liberalia” nel senso di studi che ci rendono liberi. Con questo intendeva liberi dalla tradizione e dall’autorità. A tale scopo, raccomandava innanzitutto la filosofia, ma anche la letteratura e la storia. Tagore imparò da entrambi, ma era un poeta e nella famosa scuola che fondò nel 1905 a Santiniketan, usava le arti come mezzi fondamentali per la comprensione. Musica, teatro, danza servivano ad ampliare l’immaginazione degli studenti, così imparavano ad occupare posizioni diverse dalla propria. Mi sembra che questo esempio dia un contributo che manca agli altri due: il valore dell’emozione e dell’immaginazione e come coltivarle attraverso le arti. Artisti ed educatori di tutto il mondo frequentarono la scuola di Tagore, compresa Maria Montessori. Somigliava parecchio alla Scuola-laboratorio di John Dewey e forse i due si erano incontrati, ma non si sa esattamente».

Anche Aristotele pensava che l’apprendimento dovesse essere accompagnato da “esperienze” di vita capaci di dare un senso ai saperi per esseri umani, non per eruditi. E Dewey rimproverava i suoi amici riformatori perché non vedevano quanto la scienza potesse fornire il modello di esperienza più adatto a formare indipendenza di giudizio e rifiuto del principio di autorità. Eppure in molti, in Italia, tendono ancora a contrapporre saperi umanistici e saperi scientifici. «La scienza nel senso migliore e più profondo è profondamente immaginativa e rigorosa, quindi ha legami stretti con le materie umanistiche. Purtroppo, quello che molti imparano sotto quell’etichetta non è la scienza di base, ma un insieme di capacità imparate a memoria senza una vera comprensione. Questo è “arido” davvero, ma la scienza non lo è».

Sappiamo, però, che molta della filosofia antica puntava sulla memoria quale funzione cognitiva fondamentale per lo sviluppo della logica così come dell’esperienza delle arti, e non a caso Mnemosyne, la memoria appunto, era la madre delle muse e delle varie arti. La scuola di oggi ha dimenticato il legame strettissimo tra memoria e creatività e ha condannato la memoria, relegandola a un ruolo marginale, anzi sostituendola con strumenti tecnologici di supporto. Crede che sia una mossa giusta? «Non mi piace molto usare “antichi” per parlare solo degli “antichi Greci e Romani”. In fondo, ogni civiltà è stata antica e quindi c’è un antico pensiero africano, cinese ecc. I Greci credo che si affidassero alla memoria in gran parte perché molti erano analfabeti. E non è certo una cosa da incoraggiare nel mondo moderno. Quando la gente sa leggere, non deve mandare a mente un intero dramma di Shakespeare. Eppure potrebbe esserci un motivo per memorizzarne delle parti, se si vuol ascoltare meglio il ritmo della poesia. In matematica, le calcolatrici sono un vantaggio impareggiabile e forse bisognerebbe chiedere agli insegnanti di matematica se i bambini devono tuttora imparare a fare le somme. La memoria però è cruciale nel fornire un’architettura o un quadro generale a un pensiero più particolareggiato. Per esempio, la storia va imparata come un’intera narrazione e non solo guardandola a spizzichi e bocconi su Wikipedia. Qui la memoria ha ancora un ruolo. E le posizioni filosofiche vanno interiorizzate come una configurazione di argomentazioni e non mandando a mente solo una riga o l’altra di Platone. L’obiettivo deve essere sempre l’attività e la maestria, e queste sono spesso ostacolate da troppa memorizzazione, come Platone aveva già notato. Ma alcuni tipi di memorizzazione sono produttive».

Pensa che sia utile esercitare la competenza filosofica già nei bambini anche in tenera età? «Sì, dovrebbero pensare a come si arguisce, a quali sono gli argomenti giusti e così via. C’è parecchia ricerca in proposito: a cinque o sei anni sono già capaci di trovare errori in un ragionamento se il tema è adatto alla loro età e la pedagogia li attira».

Che equilibrio dobbiamo immaginare tra materie che – come il critical thinking, o la logica e la retorica – forniscono agli studenti strumenti universali per differenti usi e quelle materie che invece richiedono approfondimenti e acquisizioni di nozioni e conoscenze? «Conviene non specializzarsi troppo presto. È uno dei motivi che mi fanno preferire l’educazione universitaria delle “liberal arts”. Consente agli studenti di scegliere una materia principale, ma anche di imparare molto altro. È il modello dominante negli Stati Uniti, in Corea del Sud e in Scozia e vorrei che altri Paesi ne apprezzassero l’importanza».

Sa che l’Italia detiene un triste primato nella classifica Ocse dell’analfabetismo funzionale (functional illiteracy)? Non le pare una grande contraddizione che il Paese che nel mondo è visto come la culla della civiltà e della cultura sia così mal messo dal punto di vista della formazione dei propri cittadini? «Sono certa però che l’Italia non è prima al mondo in questa categoria! Nei Paesi in via di sviluppo c’è troppa gente che non ha neppure accesso alla scuola. In India, dove lavoro di più per lo sviluppo, il tasso di alfabetizzazione degli adulti è del 65% per gli uomini e di circa il 50% per le donne. Però gli italiani sembrano avere un problema serio. Non saprei chi ne è responsabile, ma immagino che sia l’educazione elementare. Una cosa che una nazione moderna deve fare è concentrarsi sui bisogni dei bambini con particolari difficoltà, per via della malnutrizione o della povertà, o della violenza fisica a casa, o perché in famiglia la lettura non è incoraggiata. Ogni Paese che accoglie immigranti deve anche provvedere a un insegnamento linguistico adatto ai loro bisogni».

Le neuroscienze cognitive di oggi ci mostrano una serie di errori sistematici che tendiamo a compiere in quanto esseri umani. In che modo i sistemi educativi possono fare tesoro di questo genere di studi? «Trovo quei risultati molto interessanti. Ci aiutano a resistere alla tentazione di spiegare tutte le nostre norme con le nostre origini evolutive. In alcuni casi, l’evoluzione ci ha attrezzati bene per perseguire obiettivi validi, alcuni dei quali però esigono una resistenza a quanto abbiamo acquisito durante l’evoluzione. Per esempio, l’evoluzione ci fa diffidare degli stranieri e dalla gente il cui aspetto è diverso dal nostro. Ma la natura non è una norma: dobbiamo chiederci per che cosa lottiamo e trovare il modo di arrivarci. Nessuno direbbe mai che, se ci vediamo male, pazienza, dobbiamo vivere come natura ci ha fatti. Non dovremmo mai dire una cosa del genere per la vita morale».

Esiste anche un analfabetismo dei sentimenti. Qual è il modo migliore per sviluppare non solo le capacità logiche e argomentative ma anche le passioni e i sentimenti, evitando nel contempo le trappole che essi comportano? «Certo. Nasciamo tutti con la capacità di vedere il mondo dal punto di vista altrui, per esempio, ma di solito la sviluppiamo in modo ristretto e selettivo, limitato alla nostra famiglia, al nostro gruppo locale. Ma quella capacità può essere sviluppata sistematicamente con l’educazione storica e artistica, così diventiamo capaci di vedere come appare il mondo da molti punti di vista diversi. Dobbiamo riuscirci per fare scelte politiche responsabili. C’è tanta ricerca su come la letteratura sviluppi questa capacità. Naturalmente questo tipo di empatia non ci dice quali sono gli obiettivi cui mirare, ma, qualunque essi siano, ci aiuta. Per formulare gli obiettivi giusti, abbiamo bisogno di un pensiero normativo rigoroso, in filosofia morale e politica, per avere un’idea di quali emozioni sono utili e quali non lo sono».

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