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Sedotto dalla semiologia

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Sedotto dalla semiologia

Dopo la metà del secolo scorso, la critica letteraria europea volle anzitutto diventare scientifica e su questa volontà edificò un nuovo mito. Fu un’avventura inebriante, il suo epicentro fu Parigi, e durò circa due decenni. Il Novecento, secolo della critica, incontrava per l’ultima volta se stesso celebrando la propria apoteosi finale.

Sembrò un nuovo inizio e di ogni inizio ebbe tutta l’euforia. Ma conteneva in sé il senso della fine, perché lavorava sulla fine, coltivava la fine. Vedeva il passato nella prospettiva del superamento, del distacco, dell’interruzione di continuità e della «decostruzione». Se il passato non era stato che ideologia, copertura, mito consunto, il presente non poteva che essere demolizione critica e rifondazione scientifica. La stessa letteratura, oggetto tradizionale e inevitabile dell’attività critica, veniva vista in una luce negativa: una seducente apparenza da violare e oltrepassare.

Si trattò di una vicenda sia epistemologica che politica in cui eccesso e oltranza, estremismo, essenzialismo e nichilismo facevano parte del programma. Fra Scienza e Rivoluzione, la letteratura sembrava superflua, non poteva che sparire. Narrativa e poesia diventavano testualità dedotte dalla teoria e alla stessa critica letteraria sembrò vietato essere semplicemente, tradizionalmente letteraria: doveva essere punto di vista scientifico e politico sulla letteratura. Se la borghesia e il capitale avevano preso in ostaggio e asservito arte e cultura, non si doveva cadere nella trappola, ma demolire criticamente tutta una costruzione sociale partendo dalle sue funzioni vitali: codici linguistici, miti di massa, istituzioni e trasmissione del sapere, meccanismi della riproduzione sociale, ideologia dell’arte: fino a colpire la metafisica occidentale dai Greci in poi, secondo alcuni responsabile di ogni alienazione.

Senza ricordare questo clima degli anni 1955-80 non credo che sia possibile capire un intellettuale e un critico letterario come Roland Barthes, di cui quest’anno cade il centenario della nascita, né il suo straordinario successo. Fu un protagonista e un maestro dei più amati. Fu lui, letterato com’era, cresciuto leggendo Proust, Gide e Valéry, a dire che ormai si doveva scrivere contro la letteratura, uscendo dalla letteratura, mettendo la letteratura contro se stessa. Alle spalle di Barthes, nonostante la suggestiva inventività delle sue formulazioni, c’era un intero passato novecentesco, culminato in due campioni dell’antiletteratura e della demistificazione critica come André Breton e Bertolt Brecht. Dunque: scrivere senza fare letteratura e fare critica letteraria facendo critica sociale.

Appartengo alla generazione che a vent’anni, tra il 1963 e il 1965, lesse uno dopo l’altro i due libri di esordio di Barthes, Le degré zéro de l’écriture e Mythologies, imparando dall’uno come si analizza e si smaschera un mito di massa e dall’altro come andare oltre la «scrittura borghese», come «mettere in questione l’esistenza stessa della letteratura» imparando da Mallarmé e Rimbaud, dai Surrealisti e da Camus. Alcuni degli ultimi capitoli del Degré zéro erano intitolati «Scrittura e rivoluzione», «La scrittura e il silenzio», «L’utopia del linguaggio». In quelle pagine si poteva leggere che compito all’ordine del giorno era creare «una scrittura immacolata, affrancata da ogni schiavitù a un ordine manifesto del linguaggio», sapendo che «un capolavoro moderno è impossibile».

Mythologies mi piacque di più. Lessi il libro accanto a Minima moralia di Adorno e all’Immaginazione sociologica di Charles Wright Mills, due classici di quegli anni, due vademecum di socioanalisi antiaccademica. Come mitologo credo che Barthes abbia trovato allora la sua forma più efficace. Per analizzare la società e l’odiata «norma borghese» non sentiva ancora il bisogno di mettere in campo la semiologia, che stava scoprendo allora e alla quale dedica uno scritto finale che non aggiunge nulla, anzi toglie vivacità, colore e divertimento alle singole analisi descrittive dei vari fenomeni: i giocattoli, il Tour de France, la plastica, il music-hall, il viso della Garbo, il cervello di Einstein. Meglio l’umorismo di allora che la successiva semiologia. Arrivai a pensare che quello era il solo tipo di letteratura che mi sarebbe piaciuto scrivere.

Poco più tardi anche il volume dei Essais critiques poteva essere letto come una miniera di spunti: ma era anche un libro dispersivo, uno spreco di intelligenza, una microteoria ogni dieci righe, un polverio di acutezze che sorprendevano, suggerivano estenuavano. Bella e crudele la diagnosi che Barthes faceva dell’avanguardia: «non è mai stata minacciata che da una sola forza, e non borghese: dalla coscienza politica (…) Parassita e proprietà della borghesia, è fatale che l’avanguardia ne segua l’evoluzione». Sono righe scritte nel 1956 e sembra che i nostri neoavanguadisti non le abbiano mai lette.

È certo che la semiologia, passepartout del critico letterario e del critico sociale, sedusse presto Barthes: prometteva di accrescere i suoi poteri analitici, ma soprattutto lo teneva in contatto con linguisti, teorici della letteratura, filosofi del linguaggio e tutta una serie di discipline, dall’antropologia (Lévi-Strauss) alla psicanalisi (Lacan) alla sociologia marxista (Althusser), che avevano adottato lo strutturalismo come guida. Ma fu proprio la semiologia a spegnere, limitare o paralizzare le capacità letterarie di Barthes, a sequestrare il suo talento (se c’era) e a depurare troppo la sua immaginazione di saggista.

Barthes studiò, escogitò, ipotizzò strategie e tattiche di evasione dalla prigione semiologica. Ma furono sempre evasioni parziali e momentanee. La semiologia era un’istituzione nuova e delle istituzioni Barthes non riusciva a fare a meno. Inoltre se si accetta, come lui fece, non solo che «la letteratura è fatta di parole» (solo di parole?) ma che l’intera realtà umana è anzitutto un sistema di segni e una catena di atti di significazione, il solo modo per averne conoscenza è presupporre come mediazione imprescindibile una scienza dei segni o semiologia, accantonando la quale si resta disarmati e intellettualmente impotenti.

C’era tuttavia in lui la tentazione di qualcos’altro. Pur usando una terminologia sua, Barthes recuperò di fatto antiche e classiche dicotomie che gli permettevano un certo andirivieni, un certo gioco: a partire dalla dicotomia di Pascal che oppone esprit de géométrie a esprit de finesse: e poi, da un lato istituzione e dall’altro autobiografia, strutture e processi, durata e slancio, metodo e intuizione, ordine e trasgressione. Più che scegliere, Barthes continuò a oscillare: universitario benché osteggiato dagli universitari, docente ma anche scrittore. Contro ogni mathesis universalis sognò una mathesis singularis o scienza paradossale del singolo oggetto.

In questa lotta, la lingua della sua saggistica soffrì di denutrizione, restò prigioniera in una rete di astrazioni. Il suo stile è cerebrale, smaterializzante, in fuga dalla corporeità, che riesce appena a nominare e subito dopo legge come segno.

Benchè sia stato uno dei critici dai quali all’inizio degli anni sessanta si poteva imparare di più nell’arte di nuotare dentro un testo letterario con tutte le sue implicazioni, oggi in Barthes sorprendono più le chiusure idiosincratiche che le aperture avventurose. Ignorò quasi del tutto le letterature straniere, soprattutto contemporanee, sia europee che americane, cosa che ha impoverito e reso piuttosto sterile e priva di contenuto buona parte della sua riflessione. Se si confronta la sua saggistica con quella di autori più anziani o più giovani, Eliot e Auerbach, Curtius e Ortega, Adorno e Wilson, Trilling e Steiner, il sofisticato orizzonte intellettuale di Barthes finisce per apparire ristretto, quasi provinciale, e il suo successo internazionale quasi inspiegabile.

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