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Da «El Club» a «Under Electric Clouds», i magnifici…

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Da «El Club» a «Under Electric Clouds», i magnifici della 65° edizione

La 65ª edizione del Festival di Berlino si è appena conclusa ed è tempo di bilanci. Vediamo quali sono i cinque film più belli e significativi visti nel corso della kermesse tedesca:

El Club di Pablo Larraín – Un gruppo di preti vive, insieme a una suora, in una casa vicino al mare. Si tratta, però, di un luogo di penitenza dove redimersi dai propri peccati. Un giorno, alla piccola comunità si aggiunge un altro sacerdote, seguito da un uomo che gli urla contro pesanti accuse. Le conseguenze saranno terribili. Dopo la trilogia sulla dittatura di Pinochet («Tony Manero», «Post mortem» e «No»), Pablo Larraín firma un'altra pellicola impegnata, dura e in grado di scuotere a fondo. Questa volta il bersaglio è la chiesa cattolica (di cui “il club” è un'esplicita allegoria), ma le riflessioni spaziano anche sul senso di colpa, sulla solitudine e su una serie di controverse scelte morali. Regia splendida e cast di prim'ordine. Il miglior film del Festival di Berlino 2015, vincitore del Gran Premio della Giuria.

Under Electric Clouds di Alexey German Jr. – Diviso in sette capitoli, un lungometraggio che mostra una visione pessimistica dell'odierna situazione russa: si alternano spazi e tempi, ma la conclusione è sempre la perdita di ogni speranza. German Jr. descrive il caos del suo paese natale attraverso una messinscena dalla forte portata simbolica e filosofica, contrassegnata da riprese lunghe e da una potente costruzione delle inquadrature. Complesso, intellettuale, suggestivo. Sperando possa arrivare anche nelle nostre sale.

Ixcanul di Jayro Bustamante – Maria, diciassettenne, vive con i genitori ai piedi di un vulcano attivo. La ragazza è ormai prossima alle nozze, ma si tratta di un matrimonio combinato dai suoi familiari. Prima di mettersi il velo, seduce un giovane contadino locale (pronto a trasferirsi in America) e rimane incinta di lui. Decidere se tenere o meno il bambino sarà la scelta più difficile della sua vita. Indubbiamente una delle sorprese più positive del Festival tedesco, «Ixcanul» racconta di una comunità che vive agli antipodi della civiltà, senza elettricità e acqua potabile, compiendo curiosi riti mistici lungo le pareti del vulcano. Ciò che emerge è un sentito ritratto di un'adolescente insicura sul proprio futuro, desiderosa soltanto di conoscere un'altra parte di mondo che non sia quella dove ha passato ogni anno della sua vita. Coinvolgente e interessante.

The Forbidden Room di Guy Maddin ed Evan Johnson – Un'opera sperimentale, sul mondo del cinema e sul suo passato. Il canadese Guy Maddin (insieme al suo braccio destro Evan Johnson) firma un viaggio psichedelico nei meandri della mente umana e in quelli della settima arte, omaggiata in tutte le sue potenzialità. I procedimenti stilistici sono quelli tipici del cinema muto, ma Maddin sa bene come utilizzarli ed è riuscito a dar vita a un nuovo lungometraggio in grado di colpire e sconvolgere. I suoi fan non potranno che apprezzarlo.

Taxi di Jafar Panahi – Nell'ottobre del 2010, il grande regista iraniano Jafar Panahi venne condannato a sei anni di reclusione per aver protestato contro il governo del suo paese. Gli venne inoltre preclusa, per 20 anni, la possibilità di girare film. Nonostante il divieto, Panahi ha continuato a lavorare in semi-clandestinità, realizzando «This Is Not a Film» (2011), «Closed Curtain» (2013) e «Taxi», la sua ultima fatica inserita nel concorso del Festival di Berlino di quest'anno. Come nei lungometraggi sopracitati, continua a giocare sul sottile confine tra realtà e finzione, comparendo anche davanti alla macchina da presa: è l'autista di un taxi su cui salgono diverse persone, alcune lo riconoscono e altre no. Totalmente ambientato all'interno della vettura, il film è un forte spaccato della Teheran contemporanea, capace di scuotere e di far riflettere. Un'idea di cinema coraggiosa, che non disdegna di utilizzare anche un pizzico d'ironia. Probabilmente non il film migliore del festival, ma l'Orso d'oro (per tante ragioni) è comunque meritato.

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