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Negare il negazionismo?

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Negare il negazionismo?

Talvolta ragione e sentimento sembrano andare in direzioni opposte. Questo richiamo a una ottocentesca romanziera inglese emerge quando capita di affrontare gli interrogativi più scabrosi in materia di libertà di espressione. In altri termini, al sentimento che tende ad allontanare da sé (fino a proibire) i messaggi odiosi, ribatte la ragione che impone di tollerare anche le falsità, anche le tesi più ripugnanti.

E così, come ognuno deve consentire che le proprie credenze religiose siano dissacrate, anche in modo ritenuto irrispettoso, poiché ogni forma di potere può essere messa alla berlina, allo stesso modo a chiunque deve essere garantita la possibilità di affermare le più urticanti menzogne.

Quella più odiosa di tutte, per la nostra cultura, è la negazione della Shoah. E lo è perché si respira forte il puzzo dell’antisemitismo e perché le moderne società democratiche si sono rifondate anche sul ripudio del nazismo. Ciò è tanto vero che una buona parte dei Paesi europei ha introdotto una legislazione che proibisce il discorso negazionista, anche quando non si traduce in un’istigazione alla violenza e all’odio. Si va da Germania, Austria e Belgio che puniscono soltanto la «menzogna di Auschwitz», agli Stati dell’Est che estendono il divieto agli orrori del comunismo, alla Francia che reprime il disconoscimento dei crimini contro l’umanità sanciti da una Corte internazionale.

Almeno finora l’Italia si è posta, insieme al Regno Unito e ai Paesi scandinavi, tra gli Stati che non prevedono una legislazione repressiva specifica e, per una volta, l’atteggiamento del nostro Paese non ci pare sbagliato. Di recente, però, il Parlamento sembra orientarsi in modo diverso. È di mercoledì scorso ’approvazione al Senato di un disegno di legge che introduce un’aggravante qualora i reati di propaganda razzista o di istigazione alla discriminazione si fondino sulla negazione della Shoah o di crimini contro l’umanità. Non siamo certo davanti al reato di negazionismo in senso stretto, poiché da un lato si tratta di un’aggravante, dall’altro la parola è punita solo se vi è un’istigazione pubblica all’odio. Tuttavia, in tal modo il legislatore sanzionerebbe più severamente il discorso razzista, quando ciò comporta la negazione di fatti storici non controversi e particolarmente gravi.

Restano quindi molti i motivi che sconsigliano di imboccare anche questa strada. In primo luogo, affidare al diritto, specie a quello penale, il ruolo di custode della verità storica, della versione “ufficiale” del passato, significa consentire un’incursione dei pubblici poteri negli spazi riservati alle scienze e alla ricerca storica.

Inoltre, l’introduzione di tale aggravante contrasterebbe con il principio secondo cui in uno Stato liberale non esistono verità assolute. La verità – relativa, parziale, effimera, convenzionale – deve nascere dalla discussione e non dalla decisione politica o giudiziaria, anche con riguardo alle tragedie della storia. Ciò è connesso al principio di laicità e a quello di separazione tra Stato e società, ed è alla base della tutela rafforzata della libertà di ricerca storico-scientifica sancita dall’articolo 33 della Costituzione italiana.

Questa tesi ci pare in sintonia con le radici più profonde della Repubblica. Infatti, già in Assemblea costituente era prevalsa l’idea di lasciare aperta ogni via alla ricerca della verità. Dunque, anche ai «nemici della democrazia» fu garantito il diritto di sostenere nel freemarket of ideas finanche il falso. Sembra di intravedere nella trama della Costituzione una tale fiducia nella “forza” della democrazia da ritenere di non doverla proteggere con l’esclusione per via giuridica di chi ne nega il fondamento.

In tale prospettiva ragione e sentimento sembrano riconciliarsi nel ricordare al legislatore i principi liberali in materia penale: tra essi, campeggia la raccomandazione di evitare un eccesso di criminalizzazione. E dunque evitare altresì di allungare la lista di proclamazioni ad alto valore simbolico, lista che viceversa andrebbe sfoltita in modo robusto, specie in materia di reati d’opinione.

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