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Addio Luca Ronconi, artista senza pari. Lascia un vuoto di…

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SCOMPARSO IL FAMOSO REGISTA

Addio Luca Ronconi, artista senza pari. Lascia un vuoto di genialità

E' scomparso all'improvviso ieri sera a Milano, per una complicazione virale subentrata ai problemi di reni di cui già soffriva da tempo, Luca Ronconi: fra pochi giorni avrebbe compiuto 82 anni. Se ne va così uno dei più grandi registi del mondo, un artista, una personalità della cultura italiana di una statura senza pari. Lascia un vuoto di genialità che, oggettivamente, nei prossimi anni sarà difficile colmare.

A dispetto dell'età era ancora spinto da una curiosità, da una freschezza creativa impressionante, come ha dimostrato il recente allestimento della Lehman Trilogy di Stefano Massini, ancora in scena al Teatro Grassi di Milano, un'opera di proporzioni ciclopiche, di oltre cinque ore di durata divise in due serate diverse o presentate in un'unica densa filata.

D'altronde si sapeva bene che, malandato com'era, a tenerlo in piedi era la possibilità di applicarsi a un altro spettacolo e poi a un altro ancora, in un rapporto fisiologico con le emanazioni del suo immaginario.

Ronconi, come è noto, amava le sfide impossibili, i testi ritenuti irrappresentabili, gli spettacoli che impegnavano anche fisicamente l'attenzione dello spettatore. Amava le costruzioni barocche, le vicende intrecciate e sovrapposte, i labirinti drammaturgici che lui riusciva a tenere sapientemente sotto controllo e a domare con il suo lucido intervento. Amava penetrare nella materia rappresentata con aguzze analisi strutturali, e per indole si teneva alla larga dal facile psicologismo o dai sentimenti a buon mercato. Il che non significa che il suo teatro non suscitasse delle forti emozioni: ma si trattava pur sempre di emozioni di matrice intellettuale, spesso filtrate da una buona dose di ironia, che trapelava anche dalle intonazioni adottate dai suoi attori, sempre improntate a una vaga presa di distanze.

Tanti, anche a causa dei costi elevati, lo hanno accusato a più riprese di megalomania demiurgica: in realtà lui aspirava a un teatro che fosse specchio infinito della simultaneità e della molteplicità della vita. Il fatto che amasse i grandi spettacoli stratificati e dai complessi intrecci narrativi, come Le due commedie in commedia o La centaura, entrambi di Giovan Battista Andreini, non escludeva però la capacità di esprimere in pieno il proprio spessore anche in piccole proposte come i monologhi I beati anni del castigo di Fleur Jaggy o Mistero doloroso di Annamaria Ortese, o addirittura in “studi”, work in progress, laboratori come quelli che organizzava nel suo Centro Santacristina, nella campagna umbra, che erano per lui momenti di totale felicità professionale: fra i suoi risultati più trascinanti metterei senza dubbio Un altro gabbiano, l'altissima dimostrazione di lavoro sul Gabbiano di Cechov tenuta nel 2009 a Spoleto, in cui scomponeva e ricomponeva l'azione, ripeteva le stesse scene in chiavi diverse, invitava gli attori a scambiarsi le parti.
Anche i Sei personaggi in cerca d'autore messi in scena un paio d'anni fa con un gruppo di allievi confermavano questa sua vocazione, sperimentale prima ancora che didattica. E Nora alla prova, versione “aperta”, in fieri della Casa di bambola ibseniana, con la povera Mariangela Melato, portava questi esercizi interpretativi, questa possibilità di inquadrare gli avvenimenti da vari punti di vista, sdoppiando addirittura i personaggi, al livello di un prodotto in qualche modo compiuto, da presentare sulle grandi ribalte.

E poi l'ulteriore, temeraria scommessa, in questi ultimi anni, era stata quella di misurarsi con materiali drammaturgici anomali, che parevano estranei ai linguaggi del teatro: un saggio sull'economia come Lo specchio del diavolo di Giorgio Ruffolo, Il silenzio dei comunisti, su un carteggio fra tre illustri ex-dirigenti del vecchio PCI, Vittorio Foa, Miriam Mafai, Alfredo Reichlin – presentati a Torino nel 2006 nell'ambito del Progetto Domani, cinque spettacoli su temi di oggi, la crisi dei partiti, i rapporti fra politica e finanza, la bioetica, a richiamare i cinque cerchi delle Olimpiadi Invernali – e soprattutto lo straordinario Infinities, un autentico capolavoro di fantasia e intelligenza che si dipanava tra i locali degli ex-magazzini della Scala, alla Bovisa di Milano, su testi scientifici commissionati all'astrofisico John D. Barrow, che vi affrontava questioni matematiche e paradossi temporali.

L'ho fatto perché di questi argomenti non so nulla, aveva detto più o meno il regista con tipica arguzia ronconiana, e mi sembrava un modo per provare a comprendere ciò che mi è ignoto. Ma, pur partendo dall'ammissione di non sapere, il suo atteggiamento era stato in tutto e per tutto da scienziato del teatro, che cerca una sorta di conoscenza empirica, per così dire.

Fin dalla prima regia che l'ha imposto all'attenzione, I lunatici degli elisabettiani Thomas Middleton e William Rowley, nel '66, Ronconi si è distinto per l'eccezionale maestria nella direzione degli attori. Certi inarrivabili exploit, come quello delle cinque straordinarie interpreti di Ignorabimus – Edmonda Aldini, Delia Boccardo, Marisa Fabbri, Anna Maria Gherardi, Franca Nuti – quattro delle quali recitavano in faticosissimi ruoli maschili, restano nella storia. Senza di lui Massimo De Francovich, Massimo Popolizio, Paolo Pierobon, Galatea Ranzi, Elena Ghiaurov non sarebbero forse diventati tra i migliori attori italiani. Era inconfondibile il suo metodo di suddivisione della frase, con lunghi intervalli tra una parola e l'altra. Chi ha avuto occasione di lavorare con lui lo si riconosce al primo istante.

Uomo di palcoscenico allo stato puro, interessato soprattutto a realizzare i suoi spettacoli, non si era sottratto però alla responsabilità di operare all'interno delle istituzioni. Aveva diretto, con esiti brillanti, la Biennale Teatro nel '75 - 76, poi il leggendario Laboratorio di Prato – un'esperienza innovativa, finita tra le polemiche e gli scontri fra i partiti - dal '76 al 79, il Teatro Stabile di Torino dall'88 al 93 (uno dei suoi periodi migliori, con stagioni mirabili per coerenza e respiro) e quello di Roma dal '94 al '98. Al Piccolo Teatro di Milano aveva assunto il ruolo di regista stabile e, per un certo tempo, di direttore artistico, succedendo nel '98 a Giorgio Strehler.

Ricordare tutti i suoi spettacoli più importanti in uno spazio così breve è impresa ardua: restano memorabili, oltre all'Orlando furioso itinerante del '69, che esercitò un'influenza indelebile su una generazione di registi – bellissimo anche nella versione televisiva in cinque puntate, del '74 – il parigino XX, l'Orestea, L'anitra selvatica di Ibsen, Ignorabimus dell'autore naturalista tedesco Arno Holz, (un'altra creazione immane che si protraeva per quasi dodici ore, con un vero edificio in muratura ricostruito dalla scenografa Margherita Palli all'interno del Fabbricone di Prato).

Un altro evento leggendario fu Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus, forse la sua impresa più difficile e il suo risultato più assoluto, realizzato nello stabilimento del Lingotto, a Torino, a evidenziare la catena di montaggio della guerra, gli stretti legami fra massacri in trincea e produzione industriale, con una sessantina di attori e veri treni che scorrevano sui binari. Poi a Roma è venuto il fondamentale Pasticciaccio brutto de via Merulana, dal romanzo di Gadda, in cui inventava una tecnica di recitazione – che in seguito ha preso piede – in virtù della quale i personaggi si descrivevano e si commentavano in terza persona, e sono venute le due puntate dei Fratelli Karamazov.

A Milano ha lasciato un segno profondo, oltre che con Infinities, con Lolita, col Professor Bernhardi, da un testo semi-sconosciuto di Schnitzler, col Sogno di una notte di mezza estate, con La modestia e Il panico di Rafael Spregelburd, e poi con la serie di spettacoli sui temi dell'economia: prima della Lehman Trilogy c'era stato La compagnia degli uomini, un possente dramma di Edward Bond sullo scontro fra il magnate di una fabbrica d'armi e il suo cinico concorrente, e prima ancora Inventato di sana pianta ovvero gli affari del barone Laborde di Hermann Broch, storie di banche, di titoli-spazzatura, di truffatori.
E non si possono non ricordare i suoi apporti al mondo dell'opera, con un titolo su tutti, il Viaggio a Reims realizzato nell'84 al Rossini Opera Festival con la direzione di Abbado.
In oltre mezzo secolo, con la sua energia infaticabile, con la sua bulimia registica, lui ci ha accompagnato in un percorso unico e irripetibile, ci ha spesso illuminato, ci ha fatto crescere come spettatori, che vuole anche dire acquisire una maggiore consapevolezza come uomini. Prima ancora che inizi il rimpianto, possiamo solo essergliene grati.

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