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Da vedere ma non sentire

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YOLO

Da vedere ma non sentire

  • –di Fabio Severo

BLACKHAT è l'ultimo film di Michael Mann, un cyber-thriller in cui servizi segreti cinesi e americani collaborano per catturare il misterioso hacker responsabile di un incidente a una centrale nucleare, sabotaggi di indici di borsa e altri crimini di origine immateriale con conseguenze molto materiali. La pellicola è uscita a metà gennaio negli Stati Uniti (il 12 marzo in Italia), a poche settimane dall'attacco informatico subito dalla Sony Pictures e lo stop alla distribuzione della commedia anti Corea del Nord The Interview di Seth Rogen e James Franco.

Il film, invece, è stato un disastro al box office americano e maltrattato dalla critica. Trama troppo complicata, una love story superflua, il casting sbagliato del protagonista (Chris Hemsworth, ovvero il Thor dei film Marvel) come genio dell'informatica che dovrebbe salvare il mondo. Giusto qualche nota di elogio per la regia di Mann, le elaborate scene di azione, gli ampi set notturni tra Giacarta e Hong Kong, location strategica per far cassa nei mercati asiatici.

Mann, fino a pochi anni fa, era tra i più grandi autori dell'action movie adulto, colui che nel 1995 ha celebrato il gigantismo della vecchia Hollywood mettendo uno di fronte all'altro De Niro e Pacino in HEAT - LA SFIDA, l'uno rapinatore di banche e l'altro poliziotto. Heat è uno dei suoi film più lodati, ma negli anni seguenti Mann non ha mai smesso di rinnovare la sua idea di cinema, abbandonando la grandeur delle produzioni classiche in pellicola per cercare un nuovo stile nel digitale. Nei suoi lavori successivi (COLLATERAL e MIAMI VICE, per esempio) il digitale non viene impiegato come un surrogato della pellicola: Mann l'ha sempre usato per mostrarne le peculiarità, prima di tutto il “rumore elettrico”, ossia la grana sabbiosa che dà nelle scene di oscurità, sporche e dettagliatissime; nel complesso, uno strumento per trasformare il peso specifico delle immagini, la loro densità, inventare nuovi modi di avvicinarsi o allontarsi da volti, luoghi, oggetti.
I suoi personaggi sono sempre uomini devoti a una causa, vite vissute come un'odissea totalizzante, le figure femminili sono solo compagne, amanti, oggetti del desiderio; i dialoghi suonano spesso forzati, stereotipi di durezza, coraggio, tormento. Ma quello che conta non è ascoltare, è guardare: il senso del cinema di Mann è nelle inquadrature, nella luce, nella sua dichiarazione d'amore al mondo metropolitano. I veri protagonisti dei suoi film non sono persone, sono strade coperte di pioggia, armi da fuoco, tralicci dell'alta tensione, stazioni della metropolitana; sono jet privati, complessi industriali, motoscafi in mare aperto, interni di uffici; sono l'oscurità, il crepuscolo, il mare e il cielo che ritornano in ogni film, unico conforto su cui i suoi personaggi amari poggiano lo sguardo per riprendere le forze.
Mann è espressione di un cinema hollywoodiano scomparso, che ha ceduto la narrazione di respiro alle serie televisive (dove peraltro ha fallito come produttore di Luck): come i suoi personaggi, Mann cerca sollievo nella bellezza della pura forma, nascondendola dentro intrecci convenzionali. Prova a sovvertire il sistema dall'interno, una missione impossibile come quelle raccontate nelle sue storie. Prova a vendere l'idea astratta della forma a chi gli chiede incassi e intrattenimento; cerca di estrarre una filosofia della visione da centinaia di cliché di crime story, rese dei conti, scene madri. Perciò, quando uscirà Blackhat andate a vederlo, anche se magari sarà un brutto film: in sala chiudete le orecchie e aprite gli occhi, guardatelo come se non fosse una storia, ma il tentativo di una poesia del movimento: sotto l'odore dei pop corn potreste scoprire il sublime.

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