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E questo anche (miglior film straniero)

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YOLO

E questo anche (miglior film straniero)

  • –di Natalia La Terza

«Ça fait deux ans que je ne vois que du Jean Epstein…» accenna così alle sue ultime visioni Bruno Dumont, che su Les Inrocks confessa di non amare le serie ma di averne preso in prestito la forma per il puro piacere di giocare con la narrazione: per far apparire e scomparire una ragazza che canta sempre la stessa canzone nel giro di 200 minuti.

Quattro sono le puntate che compongono il suo P'tit Quinquin, incoronato dai Cahiers du Cinéma miglior film del 2014 in un fiorire di aggettivi che l'anno scorso non potevamo associare che a lui: «Imprevedibile», «delirante», «audace». Imprevedibile perché, se P'tit Quinquin inizia come un poliziesco divertito del suo groviglio – prima muore una donna, poi il suo amante, dopo il marito di lei, più avanti l'amante di lui –, man mano che ci incamminiamo a Boulogne-sur-Mer tutti i temi tipici di un giallo vengono sbeffeggiati.

Il commissario Van der Weyden ricorda Ingravallo e il suo «filosofare a stomaco vuoto», ai sospetti domanda se conoscessero la mucca morta piuttosto che il morto, e mentre il numero delle vittime cresce si diletta di chiedere ai contadini di realizzare il suo sogno da bambino: cavalcare un cavallo. Delirante perché le mucche pazze, morte e appese ricordano l'ultimo dei Tre studi per una Crocifissione di Bacon; perché i bambini indossano pigiami da supereroi a metà tra le ragazze di Spring Breakers e le Pussy Riot e coi loro passamontagna si buttano addosso alle saracinesche urlando: «Ch'tiderman!»; perché il nonno di Quinquin fa la tavola tirando piatti, bicchieri e posate sulla tovaglia e se suo zio parlasse con più ispirazione lo scambieremmo per Benjamin Compson. Audace perché sugli stessi prati ci sono teste di donne – quella bruna di Mme Lebleu, la bocca aperta come se dormisse, le ciocche disordinate sulla fronte di un bianco quasi viola –, miti maiali che mangiano aspiranti, funeree Lana Del Rey, ma pure i piedi di due ragazzini, Quinquin ed Eve – è nei suoi primi piani che ritroviamo gli occhi di Marie in Cœur fidèle –, che perdono i loro pomeriggi a strusciare le caviglie tra i fili d'erba più sottili, a intrufolarsi nei tunnel tra gli scogli, a dirsi l'un l'altro poche parole semplici, sincere, a darsi tanti lunghi, silenziosi abbracci. E non importa se la prima cosa che Dumont vuole farci sapere del protagonista è che porta un apparecchio acustico all'orecchio sinistro e che questo indizio non porta a nulla: come scritto da Delorme, la follia di P'tit Quinquin mette tutto in ordine. E cosa conta vedere astronauti che arrivano nello spazio per prendersi a testate, dodici anni di una tipica famiglia americana o adolescenti che corrono con un carrello in mezzo alla strada, se manca questo?

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