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L'utilità del sapere inutile

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FUORI COLLANA

L'utilità del sapere inutile

  • –di Ester Viola

Solo conoscendo Kim Kardashian, Aaron Sorkin o Carrie Mathison si vive appieno nel nostro Zeitgeist
Accadde tutto davvero nel quarto secolo avanti Cristo in Cina, periodo dei Regni Combattenti: c'era un filosofo, si chiamava Zhuang-zi, che usava parlare a lungo con l'amico sofista Hui-zi.

Un giorno Hui-zi, stanco di virtuosismi, fa oltraggio a Zhuang-zi accusandolo di dire cose completamente inutili. Zhuang-zi non si scompone: «Per conoscere ciò che è utile bisogna sapere ciò che è inutile», risponde.
Andò così. Il finale ci voleva meno banale. Delude un poco. Cinque righe buttate – ma è la Cina, e la Cina era il contrario della Grecia: argomentavano poco.
Cambiamo continente.
Negli stessi anni sul Mediterraneo la discussione era più strutturata. Verso il trecento lasciammo il Peloponneso finalmente soddisfatti e con le idee chiarissime: le cose inutili vanno da una parte, quelle serie dall'altra (lontane).

In realtà per l'Occidente non fu un processo di classificazione molto faticoso, si convenne da subito che “inutile” era una bella parola punitiva e quindi si addiceva proprio perfettamente a una certa gamma di scienze umane per sfaccendati: letteratura, filosofia e altri ammennicoli.
Così la divisione fu fatta e non se ne parlò più (certe categorie di pensiero precedenti l'anno zero abbiamo imparato a non toccarle: meglio non smuovere niente perché non si finisce mai. Il consiglio viene dalla Germania).
Pur esiliate da subito, le scienze oppresse (letteratura, filosofia, ammennicoli) dimostrarono immediatamente una buona tenuta, nonostante la poca carta disponibile e le biblioteche bruciate: Iliade e Odissea si preferì passarle ai posteri a memoria e i grandi filosofi a rischio pena capitale si procurarono discepoli – sfortune come quelle di Alessandria e del tribunale di Atene erano state messe nel conto (erano scienze inutili ma non sprovvedute).
A ogni resistenza il suo premio: infatti passavano i secoli, ma in società si vedevano i progressi. Nel senso che se ti scoprivano a scrivere o a strologare era certamente grave (sei sempre un ingranaggio volontariamente difettoso), ma con il tempo e una forte povertà avevi buone possibilità di guadagnarti il perdono. A volte – ma si dovrà arrivare al Milleseicento – capitava che ti prendessero a benvolere addirittura da vivo.
C'era chiaramente un processo di tolleranza in corso: bisognava insistere, alzarsi a difesa, veicolare il messaggio che l'Inutile non è affatto una perdita di tempo.
Cominciò la Grecia. Aristotele avvertì subito che la conoscenza ai suoi più alti livelli «non è una scienza produttiva» e sul punto scrisse disordinatamente 14 volumi, tutti senza titolo. Lasciò i posteri a farsi da soli le prime pagine e le domande.
Poco dopo c'è Ovidio, che non riusciva a smettere con le poesie d'amore. «Io resto attaccato a un inutile studio», rispose in una lettera all'amico Massimo Messalino che gli chiedeva come fosse caduto così in basso con una penna in mano.
Milleottocento, la svolta romantica: è finalmente aperto attacco alle materie scientifiche. Giacomo Leopardi si presenta con la dichiarazione di guerra: «La letteratura mi pare utile più veramente e certamente di queste discipline [erano la politica e la statistica] secchissime».
Nel 1832 progetta con Ranieri il giornale della rivoluzione, un settimanale di pettegolezzi, Lo spettatore fiorentino. Leopardi in persona scrisse una coraggiosa ma poco intelligente domanda per l'autorizzazione al presidente del Buon Governo: «Confessiamo schiettamente che il nostro giornale non avrà nessuna utilità». Dall'amministrazione risposero picche, finì come finiva prima dell'età modernissima: si trovavano i soldi ma non davano i permessi.
Nel Novecento c'è una piacevole sorpresa: Heidegger (celebre studioso bipolare, di quelli capaci di scrivere somme efferatezze antisemite e sconcertanti lettere d'amore nello stesso giorno, sullo stesso foglio).
La storia è questa: una primavera (1963) Martin partì per la Sicilia con Medard Boss, psichiatra svizzero e amico personale. Le aspettative di conversazione erano altissime ma vennero ben ripagate – tempo due settimane ed ecco l'intuizione congiunta: «Il massimamente utile è l'inutile» (il colpo di genio arriva sempre in forma breve).
Non servì altro. L'Occidente poteva dichiararsi soddisfatto: Aristotele di Stagira, Ovidio, Leopardi, Heidegger – uno schieramento di forze minimo ed efficace.
La successione è sufficientemente mainstream e convincente (altri nomi tenuti fuori per esigenze di spazio: Cervantes, Kant, Einstein), ma resta il problema delle conclusioni: non possono essere affidate a Martin Heidegger in vacanza a Taormina. Il problema delle conclusioni è poi aggravato da un altro problema: certi esaminatori qualificati hanno da poco finito di leggere i suoi quaderni neri e la diagnosi finale purtroppo è «Heidegger, Martin: nessun progresso, il miglioramento era apparente. Soggetto delirante tutto il tempo». Quindi fuori dal parco citazioni.
Tra l'altro serve anche un riferimento forte per il Duemila, non si può certo dare per buona la nostra opinione sull'utilità delle cose inutili, per la spallata finale ne serve una migliore.
Ci vuole un'ultima frase tra solenni virgolette – profondissima però semplice, bella ma moderna. E allora sia David Foster Wallace – sì, il SuperCitato, lo scrittore di cui abusano tutti. Abuseremo ancora, perché il manifesto dell'Inutile è suo.
Era il maggio 2005, una lezione agli studenti del Kenyon College che si laureavano cominciò in questo modo:
«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com'è l'acqua?”. I due pesci giovani nuotano un altro po', poi uno guarda l'altro e fa: “Che cavolo è l'acqua?”».
L'acqua è la cultura senza tornaconto, il nome meno veloce di chiamare le cose inutili. Le conoscenze che altri hanno difeso per noi.
E fu così che ci salvammo tutti, il giorno che David Foster Wallace si divertì a fare Esopo. Quindi grazie ai moderni occidentali, altro che i filosofi cinesi.
A questo punto però non saremmo completamente obiettivi se non ammettessimo un altro fatto: che nel 2000 non era rimasto poi molto da dover salvare. E che in fondo l'accusa di «inutile!» aveva perso smalto già da decenni. Oggi – 2015 – chi si sogna di dire che certa cultura è inutile? I veramente esperti non vogliono vedere neanche la distinzione tra alto e basso: tutto è consumo – e perciò rispettabile – tutto è materiale. Tutto si deve sapere.
Adesso l'Inutile piace ovunque (guardiamoci in casa: a sinistra c'è proprio una tradizione di speculatori e pure da destra ammettono che qualche intellettuale in più l'avrebbero sempre desiderato).
Certo, le ex scienze oppresse (a parte qualche eccezione monetizzata) continuano a non essere di grande aiuto all'economia, ma – ragionevolmente – che danni possono fare adesso? Qualcuno meno portato a lavorare cercherà sempre di farne un'occupazione a tempo pieno, ma il capitalismo ha sopportato ben altri filosofi e uomini di lettere, questi moderni non spaventano nessuno.
Così, per concludere con poca enfasi, diremo che l'Inutile ha vinto, può restare, la virtù farà questa concessione al vizio.
Versione dei realisti: bene l'Inutile, in mezzo al resto.
A voler essere orrendamente snob: teniamoci l'Inutile, anche l'Inutile serve all'habitat. Pensata così, pareva un'idea misuratissima. Soprattutto: se le cose a marchio inutile si limitavano a quelle che ci eravamo detti a fine millennio scorso – letteratura, filosofia, ammennicoli – allora non c'era da preoccuparsi.
Fine.
Solo che non è andata proprio così. Abbiamo convinto l'Inutile che non è affatto inutile e l'Inutile – approfittando dell'iniziale indulgenza – ha preso coraggio e si è allargato in modo preoccupante. Fino a traboccare.
Serve un esempio. Prendiamo il caso più facile degli ultimi dieci anni: parliamo di te.
Metti una sera a cena, è il giugno scorso. Come dimenticarlo, quell'anticipo d'estate: il tuo presidente chiudeva i comizi con Fix You dei Coldplay, seguì una leggendaria vittoria elettorale al 40-41 per cento e non faceva neanche troppo caldo in città.
Scelta insolita, i Coldplay. Ma non hai pensato di doverti chiedere perché c'era quella canzone – in fondo era solo un altro cambio di playlist, il rinnovamento musicale era nell'aria da tempo, aveva già cominciato Veltroni con Mi fido di te.
Non ti interessa con che colonna sonora è successo, vuoi parlare del risultato epocale di questa sinistra. Ma i tuoi ospiti non sembrano interessati alle percentuali – che c'è da aggiungere, ai numeri? – insistono con i Coldplay. Tutti concordano che con la scelta della canzone forse c'entra Aaron Sorkin, e una certa puntata di Newsroom in cui suonava la stessa canzone.
Ti chiedono che te ne pare, se anche tu sei sicuro che ci sia quel collegamento, se come loro la trovi una cosa forse romantica e forse avveniristica. Se ti piace l'idea. A loro sì.
Una puntata di Newsroom. Newsroom è un programma televisivo e lo scrive un tale Sorkin. Sei impreparato. Anzi: non ne sai niente. Peggio: francamente non capisci perché lo dovresti sapere.
Una canzone di campagna elettorale da una serie tivù americana? Le serie tivù non erano quelle cose con le risate preregistrate? Non le stavamo legittimamente ignorando? Hanno tolto le risate? Ora sono la nuova letteratura? Hai letto Franzen, Roth e parecchi altri, non erano loro, la letteratura moderna? C'è una letteratura più nuova di loro? Adesso la fanno in televisione? Le serie tivù sono entrate in politica? Anche Barack Obama ha delle preferenze il martedì sera sul divano di casa? Guarda le serie tivù e non si vergogna? No, anzi ne parla anche ai giornali? Quando è successo? Dopo Willy il principe di Bel Air? È cominciato tutto quando la tua fidanzata ha preso a parlare di Friends con le amiche? La volta in cui è andata dal parrucchiere con la foto di Jennifer Aniston per farsi lo stesso taglio e già quella ti sembrò una cretinata? Il cinese del primo rigo va rivalutato? L'Inutile tende a sfuggire di mano?
Sei disorientato. Ti fanno un favore e cambiano argomento: economia. Bene, è la tua materia, possono chiederti pure le virgole del Capitale di Marx. Solo che non vogliono parlare di massimi sistemi – quelli li sai – ma di guadagni per app telefoniche su scala semestrale. Hanno letto Forbes. Forbes non è un problema – sai che è una rivista americana, fin lì ci arrivi. Pare che in cima alla classifica delle app più scaricate dell'anno ci sia un videogioco. Di Kim Kardashian. Previsioni di guadagno: duecento milioni di dollari in dodici mesi. Nessuno ha saputo sfruttare i nuovi mezzi commerciali quanto lei, aggiungono.
Non intervieni neanche stavolta.
Provi a rilanciare con la politica economica sotto le Alpi. Ma le loro facce dicono di no – spiacenti – devi prima chiederti chi è Kim Kardashian, è più urgente.
Ti spiegano che è la protagonista di un reality americano. Non te ne importa niente, non lo vuoi sapere.
Ti avvilisci.
Però i tuoi amici sono generosi e ci riprovano: politica estera. Ti dicono che i rappresentanti di governo del Pakistan sarebbero molto contrariati da Homeland. Homeland è un'altra serie tivù – ancora. Ma quante sono? Provi ad aggiungere che è il solito pretesto per avviare una questione internazionale, e loro replicano chiedendoti se l'hai mai vista. Homeland.
No. Quindi non puoi parlare.
Inizi a sentire la disfatta, perché ti concedono l'argomento a piacere. Scegli il più facile: politica interna, la riforma del lavoro. Riferisci quello che hai letto stamattina, ma pare non basti. Ci sono novità – ti rimproverano – modifiche proprio di stasera, di quindici minuti fa, il ministro l'ha appena twittato.
Sei in grave ritardo anche su questo e vieni cortesemente invitato a diventare proprietario di un account Twitter. Ti rifiuti, ma insistono: cosa intendi fare, per il futuro? Da chi vorresti saperle, le notizie? Dai giornali di oggi? Quindi a metà? Il mondo è cambiato e i politici danno tutte le anteprime dai social network. Devi immaginarli come microannunci quotidiani a reti unificate, un telegiornale perenne – è tutta cultura, altro che inutile – ti spiegano i frequentatori di lungo corso.
Rinunci a difenderti e a dire cosa ne pensi, il curriculum sociale è già ampiamente compromesso. Che ti piaccia o no (per niente), è il momento della riflessione che stavi rimandando da anni: l'Inutile ha rotto tutti gli argini? Sta diventando pericoloso? Finirà questa follia collettiva? Vuoi provare ancora a sperare di sì?
Mentre non trovi le risposte t'accorgi che sei passato a farti domande esistenziali tutto solo mentre gli altri intorno si divertono (pessimo segno). La cena sta andando avanti senza di te – e a quanto pare anche la vita: i tuoi amici hanno cominciato a osservarti con quello sguardo freddo riservato ai disinformati. È la terrificante Medusa dello Zeitgeist: ti fissano così due o tre volte, non te ne accorgi e sei diventato un qualunquista. Uno che discute sapendo poco o niente, perché non si interessa e non è curioso. Uno che non verrà più invitato al ristorante, da nessuna parte.
Non resta che tirare le somme: è il 2015 e non siamo mai stati così in pericolo. L'Inutile governa sul resto: è l'inspiegabile tirannia del debole sul forte. Aveva ragione il cinese al primo rigo, in Oriente avevano previsto tutto e subito – dagli Occidentali, invece, come ci si aspettava, i soliti sprechi: tutti a dire che l'Inutile è una meraviglia e nessuno a spiegare dove fermarsi. Procedendo così dissennatamente per interi secoli di storia.
Che fare, quindi? Non si capisce, si sa solo che il tempo come al solito si rifiuterà di concedere grossi cambiamenti nel breve periodo (tantomeno su richiesta del pubblico). Perciò, in attesa del richiamo mondiale alla serietà, resta ferma la regola di Calvino – l'aveva pensata per i classici, ma è perfettamente riadattabile alle cose inutili: «Non servono, ma se le sai è meglio».

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