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  • –di Giorgio Fontana

Cosa significa essere umani nell'era digitale? La domanda non è così scontata, se a un gruppo di ricercatori guidati da Luciano Floridi (il padre della filosofia dell'informazione), sono occorse più di duecento pagine per metterla a fuoco. È l'Onlife Manifesto, disponibile liberamente in copyleft presso il sito di Springer: una serie di tesi sul modo in cui la tecnologia delle comunicazioni ha cambiato la nostra vita.

Alla base sta appunto il riconoscimento dell'esperienza onlife – online e vita – dove dicotomie scontate come quelle fra reale e digitale o umano e macchina non sono più sostenibili in maniera nitida.Partendo da questa intuizione, il volume si interroga su argomenti attualissimi come la disponibilità sempre maggiore di informazioni (e tutto quello che ne viene in termini di gestione, occultamento, diritto alla privacy...), la responsabilità sempre più “liquida” e divisa fra strumenti e persone (come si distribuisce la colpa nel caso di un'uccisione tramite drone?), le possibilità della partecipazione politica via piattaforme digitali, eccetera.

Attenzione, però. Nel Manifesto non troverete una comoda serie di risposte, bensì l'elaborazione di un programma di ricerca: nuovi percorsi concettuali in grado di orientarci meglio. Come spiega un membro del team, Sarah Oates: «Siamo di fronte a un bivio in termini di bilanciamento di potere fra cittadini ed élite, fra persone senza potere e persone dotate di potere nel mondo digitale; l'iniziativa Onlife cerca di rendere visibili questi problemi e queste forze». Opera quanto mai necessaria in un panorama dove le sparate passatiste («il digitale ci deruba delle esperienze reali!») o il futurismo da due soldi («il web ci libererà da ogni diseguaglianza!») hanno spesso tolto spazio all'analisi seria. Offrire una sintesi di tutti gli argomenti del Manifesto sarebbe impossibile; mi soffermerò dunque su tre punti che trovo particolarmente rilevanti.
Il primo è il concetto di hyperhistory elaborato da Luciano Floridi. Circa seimila anni fa gli esseri umani inventarono sia la scrittura che le prime forme di organizzazione statale (non una coincidenza), segnando uno stacco netto rispetto al periodo precedente. Dalla preistoria orale e organizzata in piccole comunità si passa a un governo formale strutturato attraverso la parola scritta. Oggi Floridi vede emergere un nuovo momento “iper-storico”, dove il prefisso è una parafrasi implicita dell'ipertesto di internet. Non è più la scrittura bensì la tecnologia dell'informazione a essere indispensabile per organizzare ogni forma di sviluppo sociale e personale. Le conseguenze sono molteplici: lo Stato perde il suo ruolo di unico agente nella gestione delle informazioni; i confini regionali diventano sempre meno rilevanti, il che per contrasto genera nuove tensioni geopolitiche; l'aggregazione di individui non avviene più secondo linee classiche come i partiti, la lingua o l'etnia ma si sviluppa più liberamente in nuove forme molto più rapide (e anche più effimere, certo).
Il secondo tema è uno dei più commentati negli ultimi anni: l'attenzione. E il fatto che l'approccio di Broadbent e Lobes-Maris sia molto diverso dal solito è un ulteriore motivo di interesse. Invece di insistere sulla nostra presunta incapacità individuale di gestire il multitasking o la sovrabbondanza di stimoli, i due autori si concentrano sull'aspetto sociale del problema. Per secoli l'attenzione pubblica è stata organizzata tramite segni fisici: pulpiti, tribune, palchi, segnali stradali e così via. L'opinione di Broadbent e Lobes-Maris è che l'ambiente digitale frammentato e i modelli economici che lo reggono abbiano sconvolto le indicazioni che aiutavano a orientarsi nel mondo materiale. L'opacità degli algoritmi e la difficoltà di comprendere il modo in cui i nostri comportamenti sono controllati rende dunque indispensabile lo sviluppo di un'ecologia grigia – cioè delle cellule grigie: un modo per organizzare meglio dal punto di vista comunitario le risorse della mente.
Infine, merita un cenno l'analisi su democrazia e governabilità. In un certo senso è un po' il leitmotiv dell'Onlife Manifesto: garantire un corretto equilibrio fra la possibilità di partecipazione diretta delle masse tramite la tecnologia dell'informazione, e l'efficacia della loro azione. Forse il contributo più interessante al riguardo è quello di Yiannis Laouris: nessun trionfalismo sulla “democrazia elettronica”, bensì il riconoscimento che i governi da un lato dimenticano fin troppo spesso la centralità della trasparenza, e dall'altro non sono in grado di raccogliere le istanze espresse dalle nuove e grandi forme di espressione collettiva. Inoltre, vista la centralità della la tecnologia nella gestione della cosa pubblica, sarebbe indispensabile garantire delle interfacce semplici ed efficaci – cosa che invece avviene molto di rado.
Insomma: l'Onlife Manifesto colma un vuoto nella lettura dei tempi che stiamo vivendo, ma allo stesso tempo può apparire un po' troppo tecnico (vero) e decisamente astratto (falso). Il senso di astrattezza evapora subito quando comprendiamo che il cambio di paradigma non avviene sopra le nostre teste, ma che è il risultato di piccole modifiche comportamentali e intellettuali di ogni giorno. Cercare informazioni su internet e domandarsi della validità di Google come strumento di conoscenza; rendersi conto del nesso di responsabilità umane e tecnologiche in eventi come la grande crisi finanziaria; evitare di leggere i noiosi termini d'uso di un servizio online e accorgersi che cediamo dati privati ad aziende in modo ormai automatico; sentirsi spaesati di fronte all'oceano di contenuti disponibili e creare piccole nicchie che confermano la nostra visione del mondo. Di questo e tanto altro è fatta la vita quotidiana ai tempi dell'iperconnessione; per questo e tanto altro abbiamo bisogno di nuovi concetti e una mente sgombra da pregiudizi.

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