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Lessico indiano

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Lessico indiano

Oltre che fra i dieci libri più belli del 2014 secondo il New York Times, l'ultimo romanzo di Akhil Sharma (Vita in famiglia, Einaudi, traduzione di Anna Nadotti) va annoverato fra i lessici famigliari degli anni Duemiladieci, soprattutto per via delle prime trenta pagine. Il piccolo Ajay Mishra, alter ego dell'autore, osserva i genitori e il fratello come se sapesse che un giorno scriverà un libro su di loro, aggiustandone le esistenze e anagrammandone quasi perfettamente il cognome, finché una tragedia fa saltare tutto: Birju, il fratello maggiore, sbatte la testa contro il fondo della piscina, e ci rimane per tre minuti. Non muore, ma neppure si riprende. La vita in famiglia perde una possibile aura di felicità e la storia da raccontare diventa un'altra.

Certo, il signor Mishra è sempre stato cupo, lancia anatemi, vede ovunque disonestà e trappole, ma solo dopo l'incidente comincia a bere lasciando di stucco il secondogenito («Avevo sempre pensato che quelli che bevevano fossero musulmani o poeti, oppure ricchi e depravati»). La signora Mishra invece ha sempre trovato la cupezza poco patriottica, pensa che lamentarsi equivalga a non saper affrontare le difficoltà e prima dell'incidente potrebbe anche sperare, fidarsi della brutta vita da emigrata a cui è destinata. Quanto ad Ajay, perde qualcosa di sé già durante il viaggio.

All'inizio, tutto gli sembra provvisorio e sopportabile. Ruba oggetti nuovi con uno stupore elettrizzante («La mamma, Birju e io ci eravamo portati via dall'aereo tutto ciò che si poteva: coperte rosse dell'Air India, cuscini con federe di carta, auricolari, bustine di ketchup, di sale e di pepe, sacchetti antivomito») e ha almeno due cose preferite del nuovo mondo: la biblioteca e la televisione, ovvero il conforto di Hemingway e la delizia di Love Boat. Ma a poco a poco sospetta di essere stato truffato, forse su quell'aereo la sua vita è stata scambiata con quella di un altro. Non può essere lui il ragazzino deriso e picchiato dai compagni, provocato con «allora vuoi fare a botte» e apostrofato con il classico «tu puzzi» (serve tutto il talento di Sharma per non trarre da materiale del genere l'ennesimo romanzetto sul bullismo). No, non è il vecchio Ajay quello costretto ad andare a scuola negli ormai insignificanti giorni delle feste tradizionali indiane, anziché restarsene a casa a onorare le cerimonie in abiti eleganti.

Allora Ajay comincia ad astrarsi e guardare gli eventi come se non lo riguardassero: «Spesso, dritto in un angolo, pensavo: C'è stato un errore. Io non sono il tipo che si lascia spintonare. So giocare a cricket. Sono bravo con le biglie». Ajay non capisce l'inglese veloce degli insegnanti, ha paura di perdersi in una scuola con troppe scale, sogna di sposarsi, litigare con la moglie e poi baciarla mentre lei indossa un costume azzurro, come le attrici del suo telefilm preferito. Invidia Birju che invece si integra, è intelligente e porta a casa una fidanzata vera, una coreana dalla pelle luminosa e un neo sfacciato sulla guancia. Il piccolo, geloso Ajay disprezza quella ragazza, trova innaturale e rivoltante che non sia indiana. Tutto ciò che è indiano lo conforta, mentre stare in mezzo ai bianchi lo confonde e lo innervosisce, non riesce a distinguerli: lui sarà pure diverso, ma loro gli sembrano tutti uguali (l'innocente, reciproca ferocia del razzismo bambino).

Poi, d'improvviso, la gabbia familiare si trasferisce intorno al letto di Birju portandosi dietro vecchi rancori e nuovi silenzi. Il primogenito non parla, non li guarda, non è con loro, ma non si può neppure dire che sia in coma perché tiene gli occhi aperti. È l'estremo sberleffo, un dettaglio che rovina a tutti persino il vittimismo della tragedia. Ajay, per apparire interessante ai compagni, descrive il fratello come un mito spezzato o un genio decaduto, come se quella grandiosità poco verosimile rendesse anche lui un eroe, magari hemingwayano. Gli amici però non capiscono, non sono all'altezza. Nella triste, alienata infanzia di Akhil/Ajay, non c'è posto per gli altri in carne e ossa. Al massimo per un bislacco dio inventato, mezzo Krishna e mezzo Clark Kent, un po' profeta e un po' psicologo, e per il conforto saltuario di risposte oracolari e bislacche. Sono gli unici momenti in cui la narrazione disingannata di Sharma viene interrotta da sbandamenti fantastici e ne approfittiamo, di nascosto, per sognare anche noi.

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