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Hazlitt e la stolta erudizione

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Libri

Hazlitt e la stolta erudizione

  • –Alfonso Berardinelli

Dopo vent’anni l’editore Fazi ha avuto la felice idea di ripubblicare, a cura di Fabio De Propris, L’ignoranza delle persone colte di William Hazlitt (pagg. 110, € 14,50), un’antologia ricavata da uno dei suoi libri più famosi e tipici, Table-Talk, comparso nel 1821. Per chi ne sapesse poco o avesse un vuoto di memoria, ricordo che Hazlitt è uno dei maggiori saggisti inglesi. Coetaneo del nostro Foscolo, morì a cinquantadue anni nel 1830, dopo aver avuto fra i suoi amici prima Wordsworth e Coleridge e più tardi sia Keats che Shelley. Anche Charles Lamb, che condivide con lui il primato nella saggistica romantica inglese, gli fu amico.

In quanto teatro delle idee, nei conflitti fra common sense e idee dominanti, il tipo di saggistica praticato da Hazlitt valorizza l’arte della conversazione trasformandola in genere letterario. In tutte le culture e epoche della storia in cui illuminismo, democrazia, passione per la verità e per la libertà diventano valori primari, il saggio come “discorso a tavola”, lettera, dialogo, polemica e satira raggiunge il suo apogeo. Ma come è avvenuto nell’ultimo secolo, con lo sviluppo specialistico delle discipline (sociologia, psicologia, scienze politiche e della comunicazione) la saggistica letterariamente intesa deperisce. La libertà del suo linguaggio è assediata e depotenziata dai gerghi tecnici, mentre l’osservazione personale diretta è svalutata. Salvo qualche eccezione nel giornalismo di qualità (dovuto spesso a narratori o poeti) con la quasi totale scomparsa delle riviste militanti, il saggio sembra essere diventato, alla fine del Novecento, un genere marginale e inattuale. Può essere proprio questa una ragione di più per apprezzarlo e studiarne la vitalità letteraria e politica nei suoi autori classici.

Hazlitt è uno di questi. Il suo discorso sull’Ignoranza delle persone colte è esemplare anche dal punto di vista tematico. Quando la cultura si trasforma in un ambito e un modo di vita esclusivo, diventa anche un vizio. L’esibizione erudita allontana il pensiero dall’esperienza comune. Già l’epigrafe da Hudibras (1663) di Samuel Butler, che Hazlitt sceglie per annunciare la sua polemica contro la pedanteria, denuncia la specifica ignoranza di cui è portatrice e vittima la classe dei colti: «Più lingue un uomo apprende» scrisse Butler «più danni arreca al suo talento: il tempo e la fatica così spesi li sconta sempre in qualche modo (…) Eppure chi sa dire solamente assurdità, ma in diverse lingue, passerà per più colto di colui che sa ragionare bene nella propria lingua».

La virulenza dell’attacco è ben annunciata e non manca di qualche spettacolare forzatura. Quando scrivevano Butler e, più di un secolo dopo, Hazlitt, esistevano ancora i lavori agricoli e artigianali che meritarono di essere attentamente analizzati e illustrati, a metà Settecento, dalle tavole dell’Encyclopédie. L’illuminismo era una filosofia che voleva guardarsi intorno, che faceva viaggiare il pensiero in lungo e in largo. Quella di Hazlitt è un’implicita difesa delle persone capaci di stare attente a quanto accade sia nel mondo esterno che dentro la loro testa. Se si vuole osservare prima di ragionare, la cultura libresca può essere un insidioso pericolo: «L’istruzione troppe volte è in contrasto con il senso comune, è un surrogato del vero sapere» dice Hazlitt. I divoratori di libri finiscono per avere «occhi deboli» e «temperamenti apatici». Quando la lettura impedisce non solo l’osservazione ma anche l’introspezione e la coscienza di sé, il paradosso diventa realtà: si studia per non pensare e per non vedere. La polemica di Hazlitt è tutt’altro che invecchiata. Il declino del libro oggi è dovuto allo sviluppo di tecnologie che scoraggiano la percezione diretta e sequestrano l’attenzione riducendola a poche operazioni preordinate. Al posto del libro ci sono le protesi informatiche a dare l’illusione di avere sempre con sé tutto il sapere e perfino di agire.

Quando Hazlitt scrive che l’uomo libresco riesce «a respirare solo un’atmosfera colta, così come gli altri uomini respirano aria comune», la sua è una lode sia illuministica che romantica dell’autonomia individuale, dell’autoeducazione, dell’ubbidienza a se stessi e alla natura, secondo un insegnamento che viene tanto da Defoe che da Rousseau. «Preferirei essere un tagliaboschi» dice, perché «il dotto non è che uno schiavo letterario» e «se lo mettete a scrivere qualcosa di suo gli gira la testa e non sa più dov’è». Se Hazlitt non è fatto per piacere agli studiosi e agli eruditi, è perché loro non piacciono a lui. Ma anche quando descrive se stesso e la propria inettitudine pratica o «effeminatezza» (la chiama così), che ha in comune con tutte le persone colte, non si ferma a questo. Gli individui pratici sono a loro volta schiavi di attitudini maniacali: «Certi uomini sono semplici macchine. Vengono attaccati alla carriola degli affari o imbrigliati a una professione. Avanzano sgobbando e arrivano al successo. I loro affari li conducono, non sono loro che conducono gli affari». Devono guardarsi dal pensare. Se il tipo pratico «possiede un granello di intelligenza o di perspicacia in più» questo «sarà probabilmente la sua rovina». Le sue saranno viste come velleità irritanti e incomprensibili. Anche la vita attiva ha i suoi specifici inconvenienti: «L’azione richiede cooperazione, ma in genere se ti opponi agli usi, la gente si oppone a te».

Pur non avendo avuto una vita avventurosa ed essendo stato fin dall’adolescenza poco adatto ai rapporti sociali perché «troppo cosciente di sé» (è il parere di suo padre), il lavoro giornalistico e la varietà dei suoi interessi permisero ad Hazlitt di studiare i comportamenti privati e quelli pubblici. In gioventù si dedicò alla pittura, poi alla filosofia. Pubblicò nel 1805 On the Principles of Human Action e l’anno dopo Free Thoughts on Public Affairs. Si propose di scrivere una storia della filosofia inglese. Fu più di una volta in dubbio su quale fosse la sua vera vocazione. Il suo più noto libro di critica letteraria è dedicato ai personaggi di Shakespeare. Dovendo vivere di conferenze e di giornalismo, la sua produzione è così vasta e varia, che selezionare il meglio non è stato facile per coloro che hanno studiato la sua opera.

Nel volumetto di Fazi il saggio più efficace e attuale è quello Sulle istituzioni. Non c’è sociologo, mi pare, che sia riuscito a dire tanto in così poche pagine. Qui Hazlitt parla del nostro presente e anche del nostro futuro: «Le istituzioni sono più corrotte e più guaste degli individui, perché hanno più potere per fare il male, e sono meno esposte al disonore e alla punizione. Non provano vergogna, né rimorso, né gratitudine e neanche benevolenza. La coscienza individuale o naturale del singolo viene soffocata (…) e non si pensa ad altro che a dirigere meglio lo sforzo comune (liberato da scrupoli inutili) per ottenere vantaggi politici e privilegi da spartirsi poi come bottino».

La passione che domina nelle istituzioni è lo spirito di corpo: «Se uno dei membri solleva un’obiezione opponendosi al gruppo viene subito messo a tacere, si fa il sangue cattivo e non conclude niente: è considerato un intruso». Chi poi si immerge in un mare di «litigi, intrighi, beghe» finisce per «perdere di vista senso e sentimenti comuni» e per attribuire a mille meschinità un’enorme importanza: «È diventato un altro» e neppure se ne accorge. Ancora: «l’energia è bloccata, la coscienza dissecata». La moralità è sostituita con l’ufficialità. «Le nostre università sono diventate in gran parte delle cisterne per conservare, non delle condutture per distribuire il sapere». E «tutti quelli che si agitano, strisciano e pregano per ottenere un posto, vivono poi sugli attestati di merito fino alla vecchiaia, dopo la quale è raro che se ne senta più parlare. Se capita fra di loro un individuo veramente capace che segue la sua strada, non conta niente. Consigli, delibere, discorsi, votazioni: mai che compaia il suo nome (…) Viene subito trattato come un visionario, un fanatico con idee ostili all’interesse e al buon nome dei membri della società».

Come profeta del novecentesco e attuale trionfo dell’organizzazione e delle burocrazie, Hazlitt, mi pare, ha detto quanto basta.

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